Diciamo la verità. Non ci fosse l’imbarazzo di passare per populisti sovranisti (in sigla Ps, che non significa più, quindi, pubblica sicurezza) di fronte alle ultime esternazioni dell’Ocse sul reddito di cittadinanza ci sarebbe davvero di che metter mano al cestino, per un’immediata archiviazione.

Leggiamo qualche passo illuminante: “Il livello attuale del sussidio è elevato rispetto ai redditi mediani italiani e relativamente a strumenti simili negli altri paesi Ocse”.



Bene bene: le teste d’uovo dell’Ocse, evidentemente recuperando arretrati enormi da smaltire, sono riusciti a leggere i giornali italiani di nove mesi fa, quando si iniziò a discutere sulla stampa, nei salotti e in parlamento, del reddito di cittadinanza concentrandosi subito per l’appunto sulla prevista consistenza degli importi. E hanno introdotto quest’illuminante definizione di “reddito mediano” che necessariamente riporta alla memoria la “media del pollo” di trilussiana memoria. Il reddito mediano è quello che intascano gli italiani, ed è rappresentato dalla media tra Leonardo Del Vecchio, padrone di Luxottica, che guadagna millemila fantastilioni l’anno, e Pasquale Esposito, nullatenente. Bene. Ora sì che è tutto chiaro.



E  ancora: “La sua messa in opera dovrà essere monitorata attentamente per assicurare che i beneficiari siano accompagnati verso adeguate opportunità di lavoro”. Capperi, che acume: bisogna monitorare attentamente la “messa in opera” del reddito di cittadinanza. E chi ci avrebbe mai pensato, se non ce l’avesse raccomandato l’Ocse?

Ma davvero, la cosa più sorprendente è il giudizio sull’entità del sussidio, “elevato rispetto ai redditi medi”. Dunque l’Ocse è riuscito là dove non osa l’Istat, tentenna Eurostat, si astiene la Banca Mondiale e forse nemmeno la Spectre saprebbe esprimersi: quando davvero guadagnano gli italiani. E poi: quali italiani. Quelli di Trento o quelli di Crotone? Quelli di Aosta o quelli di Oristano?



Cari amici dell’Ocse, l’Italia è un’opinione, ci sono più cose tra Bolzano e Mazara Del Vallo che in tutta la vostra filosofia, voi la considerate uno stato nazionale, quest’Italia, ma è giovane giovane, è nata appena 158 anni fa e dopo essere stata “fatta” nazione da un unico regno – su una decina che se la spartivano – che si annetté gli altri, avrebbe dovuto “fare gli italiani” – come le aveva raccomandato il patriota Massimo D’Azeglio, torinese, quindi annessore – ma ha sempre rinviato l’impegno, che a tutt’oggi risulta disatteso.

Dunque gli italiani sono, appunto, un’opinione, non un popolo organizzato in nazione. Più che evadere il fisco – l’Eurostat stima la graziosa abitudine nel 16% del Pil ufficiale – lo vanificano in premessa, con quella genialata che è l’economia sommersa, qualcosa come la faccia nascosta della luna, che ci sia tutti lo sanno, come sia nessun lo sa.

In generale – e ironie a parte – il “Rapporto sull’occupazione” diffuso ieri dall’Ocse conferma quella difficoltà nel misurare il nostro Paese con lo stesso metro mitteleuropeo adottato dalle istituzioni internazionali come questa ma come anche la Banca Mondiale o il Fondo monetario. Lo “spread” – tanto per citare un concetto molto utilizzato da quelle stesse istituzioni – tra le “metriche” delle statistiche economiche ufficiali e la costituzione materiale del nostro Paese è molto largo. Dunque è difficile misurare il reddito in termini di potere d’acquisto reale nell’Italia del sommerso e dell’evasione, come pure tarare la misurazione a seconda delle varie zone, dopo che il 18 marzo 1969 vennero abolite le famose gabbie salariali, cioè quei meccanismi che dosavano i salari dei lavoratori dipendenti in funzione delle loro residenze e del conseguente, variabile potere d’acquisto reale del denaro in esse.

Il problema reale che si sta incontrando sul territorio nell’applicazione della legge sul reddito di cittadinanza è far funzionare le istituzioni esistenti e creare quelle necessarie ma mancanti. Capire chi lo merita e chi no. E affiancare i beneficiari nel compito di cercarsi un lavoro. Due missioni impossibili.

Il nostro è un Paese in cui un immigrato regolare può essere condannato in via definitiva per molestie sessuali a un minore ed essere pescato dalla polizia stradale mentre guida ubriaco, subendo giustamente per sei mesi il sequestro della patente per guida in stato di ebbrezza, e dopo un paio d’anni essere messo a guidare uno scuolabus carico di bambini.

Avete letto bene? Vi ricordate il dirottamento dello scuolabus di Cremona ad opera dell’autista ex-molestatore ed ex-ubriacone? Ecco: nel nostro Paese, nell’efficiente Lombardia (per giunta) si riesce ad affidare il trasporto di bambini a un ubriacone pedofilo. Come affidare l’Avis a Dracula. Senza che la banca dati della polizia e della motorizzazione, che avevano archiviato il sequestro della patente, si siano mai parlate con la banca dati dell’Asl presso la quale il delinquente aveva chiesto e ottenuto sei mesi (sei mesi!) di malattia, ovviamente inesistente, per poter evitare di recarsi al lavoro e non dover quindi dichiarare di non avere la patente. Questo è un Paese in cui si può svolgere un mestiere ad alta pericolosità pubblica, come il trasporto di minori, senza che il Casellario giudiziale informi il datore di lavoro dei reati per i quali un suo dipendente è stato condannato. Il minimo che possa accadere in un Paese del genere è che l’autista pedofilo ubriacone si riveli anche più che un terrorista islamico un fuori di testa, e tenti di dirottare l’autobus. Finendo poi fermato da Carabinieri, altra stranezza del Paese, che peraltro più o meno funzionano.

Questa è l’Italia. Non funziona più niente, Carabinieri a parte. Altro che reddito di cittadinanza troppo generoso…