Caro direttore,
il dibattito attorno alla designazione di Amy Coney Barrett a giudice della Corte suprema degli Stati Uniti (Scotus) non è meno acceso in Italia che oltre Atlantico: su molti versanti. Il più rilevante rimane l’interfaccia – permanentemente complessa e delicata a Washington come a Roma – fra politica, istituzioni e giustizia: soprattutto quando una magistratura di alta garanzia (Scotus o la Corte costituzionale italiana, anche se con strutture e funzioni non del tutto coincidenti) è incaricata di vegliare sulla legalità democratica di lungo periodo di un Paese.
L’incandescenza e la rilevanza globale del “caso Barrett” è certamente legata al fatto che la scomparsa di Ruth Bader Ginsburg ha dato al presidente Donald Trump la possibilità di una terza nomina fra i 9 justice: questo a un mese o poco più dalle presidenziali Usa. La designazione di Barrett – una giurista e magistrata di orientamento conservatore, lontano da quello di Ginsburg – sarebbe secondo i critici impropria nel metodo e inaccettabile nel merito: andando a spostare in misura significativa i delicati pesi interni a Scotus quando fra un mese Trump potrebbe dover lasciare la Casa Bianca a vantaggio dello sfidante democrat Joe Biden.
Ciò che continua a colpire – nel fuoco di sbarramento anti–Barrett – è la repentina “cancellazione” dell’evidenza storica di una forte indipendenza della Corte suprema americana (come peraltro, ha sottolineato dall’Italia Claudio Baroni sul Corriere della Sera). Prevale ancora (sotto la firma italiana di Alessandro De Nicola su Repubblica) l’allarme sulla designazione “pericolosa a prescindere” di Barrett: capace addirittura – con il suo semplice ingresso come junior in un collegio di nove – di mettere a repentaglio un flusso di deliberazioni “buono e giusto a prescindere” dal 1789 fino alla morte di justice Ginsburg. Ma al di là dell’ennesima offensiva planetaria politically correct, il modo di guardare dall’Italia sembra presentare specifiche distopie.
Chi grida al “colpo di mano” da parte di Trump sembra trascurare che negli Stati Uniti le designazioni alla Corte suprema – sempre presidenziali, sempre a vita – sono sottoposte obbligatoriamente alla griglia del Senato elettivo. Un esame severissimo, a porte aperte, su ogni centimetro delle pelle pubblica e privata del candidato. Sono filtri che invece la Carta costituzionale italiana non prevede.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha da poco nominato un nuovo membro fra i 15 della Consulta. Lo ha fatto esercitando in modo pienamente legittimo un potere conferitogli dalla Costituzione, indicando la civilista pisana Emanuela Navarretta. Quest’ultima è entrata immediatamente in carica: senza vagli ulteriori – istituzionali o politico-mediatici – di un curriculum accademico corposo e impeccabile, anche se poco noto agli italiani, soprattutto nei suoi profili politico-culturali. Non si è acceso nessun dibattito rovente come invece – anche in Italia – sul caso Barrett. Anzitutto: la legge – la Costituzione – prevede da 72 anni delle regole che non possono essere discusse solo perché nell’occasione la scelta (legittima e per lui inequivocabilmente motivata) di un Presidente non piace o non convince. Ma non è questo l’unico snodo d’attualità comparata ignorato – almeno apparentemente – dai molti watchers italiani.
Nei giorni scorsi la Corte costituzionale ha autonomamente votato nel suo collegio il successore di Marta Cartabia, giunta alla fine del mandato di nove anni. È risultato eletto Mario Morelli, finora vicepresidente in quanto secondo membro più anziano. Per questo rimarrà in carica soltanto tre mesi, mentre l’esito della sua elezione ha fatto emergere altre due candidature: quella di Giancarlo Coraggio (finora il terzo più anziano) e quella di Giuliano Amato. Entrambi sono ora vicepresidenti e sono virtualmente gli sfidanti designati per il prossimo round. Ma è, ancora una volta, un passaggio che sembra interessare poco o nulla agli opinionisti nazionali: nemmeno a quelli appassionati alla svolta in America. Eppure qualche motivo per buttarvi l’occhio vi sarebbe: indipendentemente dai cognomi e dai curricula.
Morelli e Coraggio sono due magistrati, designati in Consulta il primo dalla Corte di cassazione, il secondo dalla Corte dei conti. Amato (indicato dal Quirinale) è invece un costituzionalista con un importante curriculum politico, culminato in due presidenze del Consiglio. Il tema può sembrare da addetti ai lavori, ma negli ultimi dieci anni, fra i dieci giudici succedutisi alla presidenza della Consulta, solo due sono stati indicati dal Parlamento (che ha voce in capitolo a camere riunite con maggioranza qualificata su un terzo delle 15 poltrone). Quattro sono giunti dal parterre dei cinque riservati ai ballottaggi interni alle diverse magistrature; mentre altrettanti sono risultati di nomina presidenziale. È uno score in fondo coerente con un Paese che ha appena deciso per referendum di punire il suo Parlamento: al termine di un semestre caratterizzato dal “governo dei Dpcm” da parte di un premier mai eletto. E non è una situazione sorprendente neppure in un’Italia in cui l’autogoverno del potere giudiziario è ormai talmente intangibile che nemmeno il “caso Palamara” – in questo giorni di scena al Csm – è stato capace di suscitare un dibattito pubblico almeno pari a quello che arrovella molti italiani sull’integrità e l’indipendenza della Corte suprema di Washington.
Negli Usa come in Italia, l’identikit di judge Barrett urta nondimeno per ragioni sostanziali. “Cattolica anti-abortista”, martellano i media liberal con tono di condanna pregiudiziale e inappellabile. Ciò in contrapposizione alla “santificazione” immediata di Bader Ginsburg: israelita e campionessa storica di ogni battaglia per le cosiddette “libertà civili” (a cominciare dall’aborto) dal settore radicale dal campo dem. A una “cattolica anti-abortista” – una giurista “pro-life” in quanto cattolica – viene ormai contestato a prescindere l’accesso alla più alta magistratura costituzionale della più antica liberaldemocrazia del mondo: anche se la designazione è maturata – e verrà perfezionata – del tutto all’interno dei principi costituzionali e della democrazia elettiva americana.
Non pare contare nulla che il “cattolicesimo anti-abortista” di Barrett sia stato testimoniato con la stessa forza personale e civile con cui Bader Ginsburg ha portato ai vertici della democrazia americana il suo ebraismo laico e libertario: Barrett ha cinque figli (di cui uno affetto da sindrome di Down) e ne ha adottati due ad Haiti. Non conta neppure che la Notre Dame Law School – di cui Barrett è stata allieva e poi giurista di punta – sia stata fondata 150 fa: non molti di più della facoltà di giurisprudenza di Harvard, alma mater di Bader Ginsburg.
Conta invece – come “peccato originale” – che Notre Dame sia la più antica e prestigiosa università cattolica degli Stati Uniti: mentre Scotus è divenuta progressivamente un feudo di Harvard e Yale, dove oggi è egemone l’ideologia politically correct, avversaria di ogni credo religioso. Forse è anche per questo che la cattolica Barrett non piace neppure ad alcuni cattolici. Negli Usa e in Italia.