“La rana in Spagna gracida in campagna” è la traduzione italiana dello scioglilingua con cui alla popolana protagonista del film My fair lady viene insegnata una pronuncia corretta. Senza cedere a tensioni nazionalistiche, anche perché non ci sentiamo portati e non siamo avvocati difensori del Governo, potremmo rispondere al ministro del Lavoro del Governo Sanchez, Yolanda Diaz, con una cantilena siffatta: “In Spagna i contratti a termine non sono una cuccagna”.



Da quando è stata invitata al Congresso della Cgil a spiegare la riforma dei contratti a termine entrata in vigore in Spagna all’inizio di quest’anno, ormai si informa soltanto attraverso Maurizio Landini, pur avendo dei rapporti istituzionali con il corrispondente dicastero italiano. Alle Cortes, rispondendo a un intervento di un esponente di Vox, il ministro Diaz ha affermato che se quel partito fosse al Governo attuerebbe le stesse politiche del lavoro di Giorgia Meloni, la quale non solo ha abolito il Reddito di cittadinanza ma ha riempito il mercato del lavoro di “contratti spazzatura”. Il riferimento riguardava il decreto del 1° maggio e in particolare le norme riguardanti i contratti a termine, la materia di cui la Spagna è divenuta il Paese-guida.



Il Governo spagnolo è molto fiero di quanto è stato disposto in proposito nella recente riforma del lavoro, a seguito di un periodo di negoziazione che ha coinvolto tre ministeri, le parti sociali e in certa misura anche la Commissione europea, e che si è protratto per oltre un anno a causa delle interruzioni derivanti dall’emergenza pandemica. È stata la Commissione europea a esigere dal Governo spagnolo una significativa riduzione della “precarietà” minacciando, altrimenti, di bloccare la rata dell’ex Recovery fund. Infatti, secondo i dati ufficiali dell’Ine, in Spagna oltre il 25% dei lavoratori ha contratti a tempo determinato (con percentuali molto più alte nelle attività legate al turismo e nelle costruzioni) e il tasso di disoccupazione è tra i più alti in Europa: il 14,57% nel terzo trimestre, sul totale della popolazione attiva, e il 31,15% tra i giovani con meno di 25 anni che faticano a trovare protezioni contrattuali.



La riforma dovrebbe invertire questa tendenza emersa negli ultimi anni, dal momento che introduce la presunzione secondo cui il contratto di lavoro debba essere, di regola, a tempo indeterminato, salvo due sole eccezioni: quella delle esigenze produttive e quella della sostituzione di altri lavoratori. Detti contratti non potranno, in ogni caso, durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi settoriali) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno. Tale modifica normativa comporta, di fatto, la scomparsa della figura del contratto para obra o servicio determinado. È questa la modifica più rilevante se si considera che questa figura contrattuale oscilla tra il 38% e il 40% del totale dei contratti a tempo determinato. In sostanza, la conclusione dell’opera o del servizio non determina più l’estinzione del contratto perché l’impresa, una volta terminata l’opera, dovrà offrire al lavoratore una proposta di ricollocamento, previo svolgimento, quando necessario, di un percorso di formazione a carico dell’impresa stessa. Se il lavoratore rifiuta l’offerta o si determina l’impossibilità di ricollocarlo, in mancanza di un posto adeguato, si verifica l’estinzione del contratto, con un’indennità del 7% calcolata sulle tabelle salariali previste nel contratto collettivo.

Il cambiamento della legislazione spagnola è sicuramente un passaggio importante che lascerà un segno nel mercato del lavoro spagnolo. Per quanto riguarda l’Italia, ci sono però due aspetti del decreto-lavoro del 1° maggio che Diaz fraintende. Forse il Governo italiano non se ne sarà accorto (visto che la sua versione è quella di aver facilitato il ricorso al lavoro a termine), ma la nuova disciplina non mortifica i lavoratori e non getta i contratti nell’immondezzaio. Infatti, i datori – trascorsi i 12 mesi nei quali sono escluse le causalità – possono prorogare o rinnovare il rapporto a termine per altri 12 mesi ove ricorrano le causalità previste dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, quel generico “causalone” (le esigenze di natura tecnica, organizzativa, produttiva e “sostitutiva”) che il Decreto Poletti del 2014 (ministro del Governo Renzi) aveva abolito fino a 36 mesi.

Ma perché il padronato spagnolo si è fatto convincere dal Governo di Pedro Sanchez ad accettare un cambiamento così radicale? Un rapporto di lavoro non va giudicato solo per come si forma, ma anche per come si risolve. In Italia esistono norme a tutela del lavoratore licenziato illegittimamente che in Spagna si sognano. Al di là delle procedure previste, il principale elemento di differenziazione tra i diversi modelli licenziamento individuale è rappresentato dalla disciplina delle sanzioni per il licenziamento illegittimo: tutela reale con reintegrazione o tutela obbligatoria con il solo indennizzo di risarcimento. Le regole, a seconda delle fattispecie, oscillano, nei diversi Paesi, tra queste due forme di garanzia. Ma, in generale, il licenziamento discriminatorio è considerato nullo. Quelli vigenti in Spagna, Stati Uniti e Regno Unito sono i sistemi che, anche in caso di licenziamento discriminatorio, consentono al datore di lavoro di optare per l’indennizzo in luogo della reintegra. Un indennizzo che, in Spagna, non è determinato dal giudice che dichiara illegittimo il licenziamento, ma è ragguagliato all’anzianità di servizio. E pertanto ha un “costo” prevedibile.

Inoltre – come ha ricordato Gianfranco Polillo su Formiche – “in Spagna il tasso di disoccupazione, specie giovanile, è tra i più alti a livello europeo. Gli ultimi dati parlano di una cifra complessiva che supera il 13%. Tre anni fa era addirittura superiore al 15%. A marzo, per fortuna, si è verificato un calo pari a poco più di 45 mila unità. Ancora troppo poco. In Italia, invece, il tasso di disoccupazione è pari a poco più della metà (7,8%). In un anno il numero dei disoccupati è sceso di oltre 290 mila unità”. Poi va sottolineata l’inversione del trend che ha visto, nel 2022, una crescita dei flussi dei contratti a tempo indeterminato, a fronte di una diminuzione di quelli a termine. “Se questo significa voler ‘governare contro lavoratori e lavoratrici’ – ha aggiunto Polillo – solo allora, Yolanda Diaz, oltre ad un pizzico d’invidia, avrebbe ragione da vendere”.

Poi anche per quanto riguarda la copertura contrattuale, l’Italia con l’85% dei lavoratori se la passa un po’ meglio della Spagna (al 73,2%). Da notare che il Governo Sanchez ha cambiato anche la gerarchia dei livelli contrattuali riconsegnando il primato alla contrattazione di settore, mentre in precedenza il modello spagnolo si caratterizzava per la contrattazione decentrata e di prossimità. Vedremo gli effetti sulle retribuzioni.

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