La lunga intervista rilasciata dalla senatrice a vita Liliana Segre al Corriere della Sera suscita più di uno spunto di riflessione, di natura squisitamente politica (il rispetto civile per la figura morale della senatrice e la solidarietà umana per gli attacchi “hate” non hanno mai avuto bisogno di essere precisati sul Sussidiario).



Colpisce anzitutto, dell’intervista, un aspetto apparentemente da addetti ai lavori. Il “caso Segre” – dal punto di vista mediatico – non è nato sul Corriere ma su Repubblica: con la denuncia di “200 insulti al giorno” lanciati in rete contro la senatrice, alla quale per questo il Viminale ha assegnato una scorta. Il numero è stato successivamente contestato, a partire dal riscontro con i dati forniti dall’Osservatorio  sull’antisemitismo in Italia (i messaggi accertati non sarebbero più di 200 all’anno, contro l’intera comunità ebraica nazionale). La senatrice, nell’immediato, ha preferito non commentare la questione specifica. Repubblica ha difeso la correttezza della propria denuncia sull’odio antisemita mirato verso Segre, ma senza poter confermare l’esattezza della cifra messa in pagina.



Successivamente il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, è stato primo firmatario di una proposta di candidare Segre alla presidenza della Repubblica, lanciata da Lucia Annunziata: direttrice di HuffingtonPost Italia, partner editoriale di Repubblica. Il rilancio ha però obbligato la senatrice (nominata dal presidente in carica, Sergio Mattarella) a uscire dal riserbo, spegnendo sul nascere ogni illazione o aspettativa.

Ora l’intervista al Corriere sembra segnalare di per sé una presa di distanza della Segre dal punto d’origine e di prima gestione del suo “caso”: ancorché la senatrice liquidi e assolva brevemente “un’inesattezza giornalistica”, denunciando invece con forza la “campagna negazionista” che avrebbe accompagnato “la contestazione del numero”. È comunque solo una delle indicazioni sensibili che provengono dall’intervista. Input inequivocabilmente politici come oggettivamente politica resta la radice prima del “caso Segre”.



Questa va infatti ricercata nel suo intervento durante il  dibattito in Senato sulla fiducia al governo Conte-2. È stato lo scorso 10 settembre che – con una postura non inedita ma neppure usuale per un senatore a vita scelto tra le fila della società civile – la senatrice ha espresso il suo favore al “ribaltone” che estrometteva dall’esecutivo la Lega. A Matteo Salvini – presente in aula come senatore eletto – Segre ha riservato riferimenti evidenti e pesanti: citando, lei reduce da Auschwitz, il Gott mit Uns nazista. È in quel momento che è parsa prendere prima forma visibile un’iniziativa in delicato equilibrio fra battaglia civile e passo politico: fra impegno democratico e lotta di parte contro una forza politica tacciata di “nuovo fascismo”, sebbene maggioritaria nel Paese alle ultime elezioni europee.

La commissione parlamentare straordinaria “contro la cultura dell’odio e della violenza” si è infine materializzata improvvisamente poche settimane dopo: due giorni dopo il dibattuto scoop di Repubblica e all’indomani della storica affermazione del centrodestra in Umbria. L’istituzione della commissione è stata proposta – prima firmataria la stessa Segre – e subito votata: con la significativa astensione del centrodestra. Le polemiche dei giorni successivi sono state molto articolate: anche un opinionista come l’ex magistrato Carlo Nordio ha espresso una contrarietà netta alla nascita di un sedicente “Tribunale del Bene” che – avocando a sé l’esclusiva valutazione dell’hate speech – giunga a porre limiti ibridi al free speech costituzionalmente tutelato. Non ha certo stupito che sul Corriere Segre si sia sentita in obbligo di ribattere sul punto, anche se con inequivocabile arguzia storico-culturale: “Sarebbe il colmo, per un’ebrea sefardita, diventare capo dell’Inquisizione spagnola”.

Il titolo di prima pagina sul Corriere, in ogni caso, ha confermato che Segre rimane del tutto intenzionata a presiedere la “sua” commissione, nonostante “l’età e la stanchezza”. Nel domanda-e-risposta non compare mai il tema dell’assoluta originalità istituzionale di una commissione parlamentare sollecitata e poi presieduta da un senatore a vita, mentre c’è spazio per il fastidio verso chi ha ribattezzato la commissione “Segre-Boldrini”: associando la Segre all’ex presidente della Camera, da poco riconfluita da Leu nel Pd. “Non mi faccio strumentalizzare”, ha ribadito perentoria la senatrice.

Non è mancato un ringraziamento alla solidarietà espressa dal presidente della Repubblica israeliana Reuven Rivlin, ma non senza la precisazione che la lunghezza del viaggio impedisce oggi alla senatrice di recarsi in Israele. Non pare difficile evincere  la preoccupazione di alzare prontamente un muro fra la battaglia contro l’antisemitismo in Europa e l’involuzione politico-giudiziaria che sta interessando in questi giorni – senza termini precedenti – lo Stato ebraico. Non sembra in effetti facile combattere in Europa il “linguaggio  dell’odio” e presunte minacce “fasciste” alla democrazia,  mentre il premier israeliano, Bibi Netanyahu, afferma di essere vittima “di un complotto dei giudici, della polizia e dei giornali di sinistra”,  al termine di un decennio di governo fortemente caratterizzato da un sionismo “sovranista”. Per questo non ha sorpreso che la senatrice abbia rammentato la sua storica ammirazione per Yitzhak Rabin, generale-premier laburista, Nobel per la pace 1994 e propugnatore di una pace “due popoli e due stati” in Palestina (l’opzione è stata pressocché annientata dal Netanyahu, legatissimo al presidente Usa Donald Trump e vanamente contrastato finora in due tornate elettorali dal generale progressista Benny Gantz).

Nell’intervista, Segre trova, infine, modo di confermare anche un incontro “riservato e civile” con Salvini. Il quale aveva fin da subito confermato la sua adesione a una commissione che avesse come fine specifico il contrasto all’antisemitismo (stessa linea è stata dichiarata dalla leader Fdi Giorgia Meloni, all’indomani della querela a Repubblica per un articolo giudicato hate). L’incontro si è svolto a Milano, così come ambrosiana è la tribuna del Corriere. È questa probabilmente l’ultima suggestione dell’ennesimo capitolo – certamente non l’ultimo – di una “operazione Segre” che sembra avere sempre più il capoluogo lombardo come baricentro. Che risuona della recente conferma del sindaco Beppe Sala sulla ricandidatura nel 2021: quando – chissà – la Lega di Salvini potrebbe aver già conquistato Palazzo Chigi, ma anche dal centro di Roma potrebbe incontrare molte difficoltà ad espugnare il centro di Milano (cioè della Lombardia, del Nord, dell’Italia europea).

Milano sta ormai emergendo come il solo polo strutturato di attivismo politico-culturale realmente antagonista all’avanzata della Lega: occupando il campo di Salvini, non muovendo dal Sud pentastellato e assistenzialista o dal Pd funzionariale e romanocentrico. Lo si respira, in questo fine settimana, fra gli eventi di “Milano Partecipa”, un laboratorio voluto dal Comune di Milano e dalla Fondazione Cariplo per esplorare i meandri della democrazia digitale con strumenti molto diversi da quelli di M5s e Casaleggio & Associati. Lo si intuirà di nuovo all’imminente Giornata della Memoria 2020, quando tradizionale protagonista a Milano sarà la Fondazione Memoriale della Shoah, presieduta dall’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli.

L’operazione Segre sembra appena cominciata.