Come notato da più commentatori, la nostra è un’epoca strana, dove ciò che fino a ieri sembrava consolidato viene rimesso in discussione, o almeno non ci vede più così sicuri come in passato; sono state utilizzate diverse espressioni per descrivere questo clima: “fine dei grandi racconti”, “crollo delle evidenze”, “crisi dei valori”, “società liquida”…
Uno dei valori ora più critici è, a mio parere, quello indicato dalla parola “democrazia”, che abbiamo sempre considerato indiscutibile ed universale, degno, quindi, di essere esportato, anche militarmente, in paesi di tradizione assai diversa da quella occidentale. L’attuale evoluzione politica, non solo italiana, mostra parecchi spunti di riflessione in tale direzione.
In Inghilterra, ad esempio, Boris Johnson si oppone al mandato ricevuto dal Parlamento di negoziare con l’Ue l’uscita dall’Europa, per evitare lo scenario incerto e pericoloso di un “no deal”, dichiarando risolutamente di non avere intenzione di lasciarsi “teleguidare da un Parlamento che pretenderebbe di mandarlo a Canossa dai 27 di Bruxelles”, come se in una forma politica parlamentare non fosse il Parlamento ad esercitare la sovranità in rappresentanza del popolo. In Spagna, probabilmente si andrà per la quarta volta alle elezioni, non trovandosi una maggioranza parlamentare in grado di sostenere un Governo.
La situazione italiana, dove la caduta del governo giallo-verde e la sostituzione di un colore hanno portato ad un governo giallo-rosso, mostra ancora una volta, dal 2014, che la sorte di governare non segue necessariamente l’esito elettorale: alle elezioni politiche 2018 il centro-destra ha raggiunto il 37,50% al Senato e il 37% alla Camera, mentre il centro-sinistra si è fermato al 23% al Senato e al 22,86% alla Camera, il Movimento 5 Stelle ha superato da solo il 32% (il Pd si è attestato al 19% circa). Quindici mesi di esperimento giallo-verde, tuttavia – a mio avviso più che sufficienti a spegnere ogni rimpianto – hanno allarmato parecchio l’Europa e si è preferito risolvere la crisi in modo burocratico, affiancando ad una forza politica generosamente premiata nel 2018 – e altrettanto punita dopo un anno nelle elezioni amministrative – un partito di tradizione europeista, anche se meno votato: stesso premier, un politico europeo al ministero dell’Economia e un politico italiano agli Affari Economici Ue, con ampio endorsement di Stati Uniti, del Fondo Monetario Internazionale e persino del Vaticano: così l’emergenza è rientrata, il costo del debito è diminuito e i mercati ci hanno ridato fiducia. In questa come in numerose altre occasioni, il fattore decisivo non è stato il consenso popolare, ma il potere economico-finanziario, ormai in grado di configurare e riconfigurare l’assetto politico di una nazione. Si obietterà – forse a ragion veduta – che, così facendo, si è evitato il peggio, ma la domanda resta: in tale contesto, che ne è della democrazia?
La seconda parola che vorrei rimarcare è “identità”. Parlare di identità oggi suona quasi anacronistico, vista la forte dispersione a cui siamo abituati, soprattutto dai social media, con il passaggio istantaneo da un’interfaccia ad un’altra. Il movimento 5 Stelle ne è nato privo, avendo polarizzato il malessere e lo scontento generale delle classi medie, impoveritesi durante gli anni della crisi. La loro pretesa di rovesciare l’odiato sistema (basti ricordare l’espressione “Pd meno Elle”, con la quale Grillo apostrofava il Pd non molti anni fa) si è trasformata in un omologato ingranaggio del sistema. Diversa è la situazione del Pd, che nasce dal confluire di storiche tradizioni, accomunate da radici popolari: non fa forse parte dell’identità della sinistra proporre una politica di vicinanza e di attenzione alle esigenze del popolo nelle sue varie manifestazioni, lavoratore, sottoccupato, o disoccupato e, aggiungerei, rappresentato anche dalla classe media, che va sempre più impoverendosi?
Naturalmente è prematuro formulare giudizi, ma il coro internazionale di applausi ottenuto all’insediamento dal potere politico ed economico per la felice risoluzione della crisi insinuano il sospetto che a spuntarla siano stati ancora una volta mercati e bilanci.
Della perdita di tale identità, a mio avviso, si può reperire qualche traccia anche a livello locale. Milano è certamente una città bene amministrata e le iniziative intraprese per migliorare l’impatto ambientale sono lodevoli. Tuttavia, l’adozione repentina di misure eccezionali (dai blocchi alla circolazione dei diesel euro 4 all’istituzione di Area B), senza prevedere ragionevoli periodi transitori, costringono di fatto molti abitanti a cambiare auto, dismettendo quelle acquistate magari non molti anni fa; così come la trasformazione dei parcheggi di interi quartieri in aree residenziali costringerà molti lavoratori di periferia ad ulteriori sacrifici, anche economici, per raggiungere il posto di lavoro. Si dirà che l’ambiente non può aspettare e l’aria la respiriamo tutti: concordo, ma non posso non rilevare che si finisce per gravare sempre sulle spalle delle solite persone.