Caro direttore,
Graziano Delrio è certamente uno dei politici del Pd cui è riuscito di mantenere una notevole autorevolezza interna ed esterna in un centrosinistra in crisi. È stato una figura chiave sia nel governo Renzi che in quello Gentiloni (di cui è stato candidato premier alternativo). È stato al centro di chiamate insistenti sia in occasione dell’elezione a segretario Pd di Maurizio Martina, sia quando al vertice dem è stato issato Nicola Zingaretti.
È stato sindaco di Reggio Emilia, Delrio: prodotto della scuola politica di Romano Prodi, tuttora attiva al contrario di molte altre. È un medico cattolico, padre di nove figli: difficile trovare un ideal-tipo più convincente sullo sfondo ampio della tradizione politica dell’Italia (dell’Europa) democratica. Sarebbe probabilmente un premier più convincente di Giuseppe Conte – o di Roberto Fico – alla guida di un governo Pd-M5s: un esecutivo politico di legislatura, alternativo al disegno della Lega di Matteo Salvini. Difficilmente tuttavia sarà così, mentre non sarà affatto improbabile ritrovarlo – nel caso – alla testa di un dicastero importante.
Non sorprende, comunque, che sia giunta da lui – ieri – un’apertura importante al “ribaltone” reso praticabile dalla scommessa di Salvini sul voto anticipato. E per molti versi quello di Delrio è apparso un passo meno plateale e più credibile dell’affannoso e personalistico tentativo di rientro in gioco di Matteo Renzi. Anche la scelta di connotazione della prospettiva – “una coalizione come quella fra Cdu e Spd in Germania” – ha espresso uno sforzo abile di rendere meno occasionale e bizzarra l’ipotesi di maggioranza “giallorossa”.
Ma il tentativo di renderla politicamente meno ostica e più vendibile non riesce a nascondere appieno ellissi più o meno nostalgiche o equivoche. Ciò al netto dell’incognita principale: associare a Palazzo Chigi il Pd (erede delle forze politiche che hanno costruito la Repubblica nel dopoguerra) a quella che resta la più erratica e indefinibile fra le nuove forze del populismo antagonista europeo. Per questo il richiamo alla “grande coalizione” che governa la Germania dal 2009 – e in teoria fino al 2021- suona esplicito e nitido, ma lo è meno di quanto sembri.
Angela Merkel è essenzialmente sinonimo di stabilità moderata e centralità tedesca in Europa: non a caso Berlino ha raffreddato i rapporti perfino con la Francia irrequieta del liberaldemocratico Emmanuel Macron (a proposito: anche il dichiarato “merkelismo” di Delrio sembra distinguersi dal “macronismo” di Renzi). Ma, soprattutto, la maggioranza “costituzionale” tuttora in sella a Berlino ha finora ferocemente difeso la sua incompatibilità con qualsiasi “diversità” politica attorno al Bundestag: quella della nuova destra xenofoba (AfD), quella neo-liberista (Fdp), quella del riformismo emergente (Grünen), quella della sinistra estrema (Linke).
Cdu-Csu e Spd sono del resto le forze politiche che – prima in alternanza chiusa, poi in GroKo – hanno ricostruito la Germania dopo il 1945 e ne hanno ininterrottamente pilotato ogni passaggio: primo fra tutti la riunificazione del 1990. La prima impressione della svolta “merkeliana” di Delrio sa quindi di nostalgia: per l’epoca in cui anche l’Italia era governata dai grandi partiti storici (Dc poi Psi e infine Pci). E non per coincidenza le estreme propaggini di quell’epoca sono state le due stagioni di Romano Prodi, amico personale del “padre della patria” tedesca Helmut Kohl. Ma nell’Italia del 2019 la maggiore forza erede di quelle stagioni fra prima e seconda repubblica (il Pd) è al 18%, soltanto terza in Parlamento dopo due formazioni ormai “di terza repubblica” (perfino il centrodestra di Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini è pressoché archiviato).
Nella stessa Germania, tuttavia, il passato sembra – per la prima volta – sul punto di passare. Al culmine del merkelismo (2013) l’Unione Cdu-Csu contava su un score elettorale del 41,5% , ridottosi al 32,5% al giro di boa del 2017 e precipitato al minimo storico del 28,9% nel voto europeo dello scorso maggio. Più preoccupante ancora la parabola del partito di Willy Brandt ed Helmut Schmidt: era sopra al 40% nel 2002 (rielezione di Gerhard Schröder a cancelliere) lo scorso maggio è crollato al 15,8%. E le crescente debolezza personale della cancelliera ha solo reso più incerto il futuro della GroKo a Berlino: che potrebbe non durare per tutta le legislatura e non sfociare in una successione pilotata fra Merkel e la delfina Annagret Kramp-Karrenbauer.
Pd, M5s, Cdu-Csu ed Spd – pur avendo tutti accusato netti arretramenti nell’ultimo voto per l’europarlamento – hanno intanto contribuito ad eleggere l’italiano David Sassoli (S&D) al vertice del Parlamento europeo. La Spd si è invece significativamente defilata quando era in gioco la ratifica della designazione di Ursula von der Leyen (tedesca e Cdu) a nuovo presidente della Commissione Ue. L’ex ministro del governo GroKo in carica, com’è noto, non ha potuto neppure contare sul voto del suo cancelliere nel Consiglio Ue: la Spd ha posto il veto, in base al “contratto di coalizione” citato anche da Delrio.
La maggioranza “giallorossa” italiana – non ancora oggetto di vero negoziato in Italia – risulta quindi già operante e decisiva per difendere la centralità tedesca in Europa: non più garantita, invece, dalla coalizione Cdu-Csu/Spd in Germania. Un altro paradosso, non meno equivoco del recente distaccamento di Sandro Gozi – un altro prodiano – alla corte di Macron. Naturalmente a meno di non avere chiarimenti sulle contropartite attese – dalla Germania e/o dalla Francia e/o dalla Ue – da un governo “giallorosso” per aver ricacciato all’opposizione la Lega.