Caro direttore,
qualche giorno fa Il Sussidiario ha ospitato una breve riflessione su una presa di posizione della senatrice a vita Liliana Segre, contraria all’ipotesi di cancellare la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione italiana. La senatrice – reduce da Auschwitz – ha affermato in una lettera a Repubblica di aver rivisto il suo favore originario all’ipotesi dopo uno scambio di idee con Giorgio Napolitano, ex Capo dello Stato, lui pure oggi senatore a vita.
Segre ha motivato la sua posizione con una considerazione di merito: la parola “razza” (nell’affermazione di un principio fondamentale che nega in via assoluta ogni possibile condizione di diseguaglianza fra i cittadini della democrazia italiana) può conservare un’utile funzione di “monito storico”. Non è inverosimile che la preoccupazione di Napolitano sia stata anche un’altra: che l’ennesima trovata “talebana” della “cancel culture” nazionale si trasformasse in un pericoloso apriscatole degli articoli-cardine della Carta repubblicana. Un ennesimo atto di autolesionismo da parte della sinistra laica che rivendica nella propria supposta superiorità etico-politica anche la custodia esclusiva della Costituzione “nata dalla Resistenza”.
Repubblica sta continuando a tenere aperto il dibattito, innescato da un editoriale del direttore Maurizio Molinari. Ed è di ieri un nuovo intervento di peso da parte del filologo Lino Leonardi, il quale avanza un’apparente proposta di mediazione: non cancellare “razza” dall’articolo 3, ma sostituirvi la parola “etnia”.
Leonardi muove da basi scientifiche che meritano certamente attenzione. L’etimo “razza” – secondo una filologia autorevole anche se non unanime – sarebbe nell’arabo “haraz”, che indicava l’allevamento dei cavalli. Quindi la parola utilizzata dai costituenti italiani del 1948 sarebbe viziata all’origine: qualificherebbe di fatto “animali”, non “uomini”. Meglio in ogni caso sostituirla con un’altra, ed “etnia” è la candidata naturale. Ma non senza che il dibattito aperto da Repubblica, inevitabilmente, si allarghi e approfondisca.
Premesso – una volta di più – che l’articolo 3 è già formulato per negare la razza come fattore “distintivo” e discriminatorio, che senso reale può avere vietare l’appellativo “zingaro” e autorizzare invece “rom”? Cancellare per decreto la parola “ebreo” e consentire “israelita”? “Negro” a favore di “afroamericano”? Il razzismo – quello reale – e tutti i mali che vi ruotano attorno si combattono veramente utilizzando il vocabolario come un gioco di società?
Ma c’è dell’altro. Se l’ortodossia stretta del “politically correct” non ammette mezze misure o compromessi, nell’articolo 3 della Carta italiana sono citate – sempre in chiave anti-discriminatoria – altre due categorie umane ad alto rischio-cancel: “sesso” e “religione”. Difficile qui che un filologo possa invocare etimi “politicamente scorretti”. La “cancel culture” più manipolativa ha invece già codificato il lemma corretto per il “sesso 2.0”: è – com’è noto – la parola “gender”, parola inglese, difficilmente traducibile in italiano. Ma la “cancel culture” potrebbe estendersi in forma specifica all’introduzione globalista di parole non italiane nella Carta italiana. In inglese, ma anche in arabo, oppure in cinese.
Più arduo, certamente, sarebbe correggere (cioè stravolgere e depotenziare) la parola “religione”. Cancellarla sarebbe ulteriormente arduo: chissà come reagirebbero gli islamici residenti in Italia. Quelli che, anni fa, occuparono piazza Duomo a Milano per la preghiera del sabato. Al termine di una manifestazione contro l’ennesima “guerra di Gaza” che contrapponeva uno Stato a maggioranza etnica israelita a milizie di etnia araba e religione musulmana per il controllo di un territorio storicamente rivendicato da popolazioni di etnia palestinese, di religione in parte islamica e in parte cristiana.
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