Il voto in Emilia–Romagna avrà come esito il voto anticipato? O si prepara un nuovo “ribaltone”? Già da ieri Il Sussidiario ha invitato a ragionare sul primo scenario, tenendo d’occhio le mosse del leader Pd, Luca Zingaretti. È una prospettiva che merita di essere approfondita: non fosse altro perché il contesto presenta più di un’analogia con il “ribaltone” di governo dello scorso agosto.



Dopo il voto europeo del maggio 2019, la Lega chiese una verifica nel governo: aveva quasi raddoppiato i suoi voti (dal 19% al 34%) in una consultazione nazionale confrontabile con il voto politico dell’anno prima. Il partner di governo M5s li aveva invece quasi dimezzati (dal 32% al 17%). L’elettorato consegnava dunque rapporti di forza rovesciati e la Lega voleva trarne le conseguenze: o con il ritorno alle urne o con un riassetto non solo di facciata del “contratto” e degli “assetti di governo”.



Sappiamo com’è andata a finire: il premier “terzo” Giuseppe Conte ha iniziato da subito a preparare il ribaltone, con molte sponde in Italia e fuori. La Ue “uscente” di Jean-Claude Juncker – in arrocco per la Brexit e per l’avanzata elettorale delle forze anti-establishment – ha immediatamente armato il bazooka contro il tentativo di scalata di Matteo Salvini a Roma: la procedura d’infrazione per il debito italiano.

È stato anche sotto questa pressione che il vicepremier leghista ha inanellato una serie di errori tattici. È rimasto fuori partita nei giorni cruciali delle nomine Ue. Si è ritirato in un suo singolare Aventino al “Papeete”, mentre Conte negoziava in prima persona fra Bruxelles e Strasburgo, sotto l’occhio attento del Quirinale. Ha sbagliato tempi e toni, il leader della Lega, quando ha sollecitato “pieni poteri”: ritrovandosi infine risucchiato in una crisi di governo che lui stesso aveva agitato con troppa spregiudicatezza.



A suo parziale discarico può essere d’altronde citato il livello massimo di provocazione politica e personale portatogli dall’“incidente Carola”: quando il vicepremier è stato pubblicamente umiliato sulla scena internazionale da parte della magistratura italiana, in un generale silenzio istituzionale.

Resta il fatto che in agosto l’Italia non è stata chiamata alle urne per verificare la rappresentatività aggiornata del Parlamento post-eurovoto. Il Pd di Zingaretti ha quindi accettato di formare una maggioranza “ribaltata” con M5s “dimezzato”. La transizione, è opportuno notarlo, è stata legittimata non solo dal voto di fiducia delle Camere in versione 2018, ma anche personalmente dal Presidente della Repubblica. In un intervento diretto a margine dello scioglimento della riserva da parte di Giuseppe Conte 2.

Trascorsi cinque mesi da quel giorno, di nuovo – all’indomani di un voto (locale) – leader politici e opinionisti si trovano a riparlare di crisi di governo e urne anticipate. Se nell’arco di mesi l’Italia sarà chiamata a elezioni, non sarà fuori luogo parlare di vittoria strategica della Lega. E un possibile voto 2020 si annuncia, sulla carta, come un’inequivocabile prova della verità dopo una fase di tensioni crescenti nella democrazia italiana: sulla falsariga di quanto è accaduto per la Gran Bretagna lo scorso dicembre al capolinea della Brexit; o come prevedibilmente avverrà in Israele con il terzo voto anticipato fissato in marzo (e a Gerusalemme appare ogni giorno meno improbabile lo sbocco di un governo di coalizione nazionale).

Di fronte a una nuova “crisi di governo” (dichiarata o non dichiarata, pilotata o pilotabile) Mattarella difficilmente potrà ignorare il fallimento della scommessa giallorossa del “ribaltone” 2019. Ma altrettanto difficilmente deciderà subito per lo scioglimento delle Camere. Nel caso, la Costituzione gli concederebbe nuovamente mani abbastanza libere per valutare la formazione di un esecutivo che eviti ancora il voto anticipato.

Nel maggio due anni fa, Mattarella non ha esitato a incaricare per un giorno un ex funzionario Fmi come Carlo Cottarelli (e pochi giorni dopo ha anche respinto la candidatura di Paolo Savona al Mef). Ma in concreto chi potrebbe guidare il terzo esecutivo della diciottesima legislatura repubblicana? E con quale maggioranza?

Il pressing del Pd su M5s presenta molte somiglianze con quello della Lega sette mesi fa. Il “piano B” di Salvini rispetto alle elezioni anticipate guardava alla promozione a premier di Luigi Di Maio (l’ipotesi di una premiership affidata a Giancarlo Giorgetti era soltanto teorica). L’esito reale sarebbe stata l’eliminazione di Giuseppe Conte: figura fin dal primo giorno anomala per la maggioranza giallo–verde.

Il Pd sembra ora muoversi in una prospettiva analoga, anche se più penalizzante per M5s. Da un lato Zingaretti offre al reggente Vito Crimi la sopravvivenza della maggioranza (presumibilmente gradita sia al disastrato vertice pentastellato che al suo “popolo” parlamentare). In cambio, però, il leader dem sembra profilare una “fase 2” con forti cambi d’ agenda e di struttura dell’esecutivo: senza escludere, presumibilmente, neppure un cambio della guardia a Palazzo Chigi.

Qui non è difficile immaginare l’approdo ipotetico di Dario Franceschini: fra l’altro in storici rapporti con Mattarella, oltreché con Romano Prodi – padre morale del Pd “emiliano” – e con gli ambienti cattolici. Non è neppure escluso che il Pd provi di convincere Conte a passi indietro (magari con un incarico di governo) per potersi dedicare meglio alla costruzione accelerata del “nuovo partito dei cattolici”: vera scommessa politica del dopo–Bologna per la ri-stabilizzazione di un’Italia “non leghista”. Le incognite, tuttavia, restano notevoli.

Un “governo Franceschini” – a Parlamento invariato – dovrebbe sempre scontare la compattezza di M5s: oppure contare sulla “volenterosità responsabile” di Forza Italia. In ogni caso, a due anni dal voto politico, l’Italia si ritroverebbe governata dalla forza politica pesantemente punita dall’elettorato nel 2018, dopo aver governato per una legislatura piena. Questo Pd (18% nel Parlamento “invariato”) subentrerebbe come senior partner sostanziale a un M5s che nel 2018 ha raccolto il 32% dei voti, ma che già un anno dopo mostrava di averli quasi dimezzati su scala nazionale e ora ha accusato ulteriori arretramenti in due voti regionali molti distinti (al nord e al sud). Il Quirinale autorizzerebbe un tentativo simile? Il politologo Angelo Panebianco, ieri sul Corriere della Sera, ha subito denunciato con forza la crisi della democrazia rappresentativa aperta dall’esito del voto a Bologna e Reggio Calabria.

C’è l’ipotesi Conte 3: presumibilmente con una maggioranza formata da Pd, FI, Iv e “responsabili” M5s (ma non pare di scorgerne molti fra i seguaci di Di Maio e di Alessandro Di Battista). Si tratterebbe comunque dell’ennesimo passo trasformista consecutivo da parte di un premier mai eletto.

C’è l’ipotesi Cottarelli (assai più che un’ipotesi Mario Draghi): quella di un governo tecnico che affronti principalmente i dossier economico-finanziari, da quelli macro alle crisi aziendali. La Lega ha fatto sapere per tempo – per bocca di Giorgetti – che non sarebbe pregiudizialmente contraria.

L’ultima parola – se non la prima – l’avrà sempre il Quirinale.

P.S. Mentre politici e opinionisti si rimpallano ballon d’essai post–elettorali, chi ha mostrato di trarre immediate conseguenze politiche del voto – quello in Calabria – è stato il ministro (tecnico) dell’Interno, Luciana Lamorgese. Dopo aver tenuto la Ocean Viking carica di 403 migranti bloccata al largo per non “disturbare” il voto (lo stesso era accaduto a cavallo della domenica elettorale in Umbria), il Viminale ha assegnato come porto di sbarco Taranto. Un molo situato in Puglia (regione tuttora amministrata dal centrosinistra). Non Lampedusa, né un porto siciliano o calabrese, approdi usuali di barconi o di navi Ong operanti nel Canale di Sicilia. Da domenica la regione Calabria (patria, fra l’altro, dell’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti) è infatti passata al (cosiddetto) “nemico” di centrodestra. Meglio non provocarlo e avvalorare anzi la narrazione di un’Italia nettamente divisa fra “accoglienti” e “razzisti”.

Il momento è oltremodo delicato: il governo Conte 2 non ha più alibi di fronte al pressing Pd per l’abolizione dei decreti sicurezza intitolati a Salvini (né sono mancati, nelle ultime ore, appelli a rimettere subito in cantiere la normativa ius soli). Conte sembra comunque aver già predisposto una tribuna politico–mediatica per tratteggiare le linee della “fase 2” del suo esecutivo sul fronte migranti. Sabato 1° febbraio il premier italiano parteciperà infatti – presso la sede di Civiltà Cattolica – alla presentazione del volume Essere mediterranei di padre Antonio Spadaro. In una sorta di “bilaterale” Italia-Santa Sede, Conte ne discuterà con il segretario di Stato di Papa Francesco, cardinale Pietro Parolin.