Giovedì uno degli accordi più attesi della COP-26 di Glasgow per ridurre l’uso del carbone non è stato firmato dagli Stati Uniti e il testo è stato indebolito per permettere almeno un altro decennio di uso del combustibile fossile. Anche Cina, India e Australia non hanno firmato il testo. Negli ultimi giorni Putin ha dichiarato che le foreste russe daranno un grande contributo al raggiungimento degli obiettivi di riduzione di CO2 della Russia. La Cina sposta gli obiettivi ad anni che probabilmente nemmeno i nati negli anni ’80 riusciranno a vedere. Gli Stati Uniti si rifiutano di firmare l’accordo sul carbone. Molti dei Paesi sviluppati che invece lo firmano, per esempio la Polonia, hanno ingenti programmi di espansione dell’energia nucleare. 



L’Europa, che è molto indietro nella classifica dei Paesi che emettono più CO2, è l’unico tra i principali attori globali che persegue la rivoluzione verde senza prendersi cautele né sull’orizzonte temporale, né sul nucleare. La defezione degli Stati Uniti di Biden è semplice da spiegare: i costi della transizione verde sono enormi, le tecnologie rinnovabili hanno un’efficienza economica che non è paragonabile a quelle delle fonti tradizionali e i costi di gestione dei picchi sono notevoli. In una fase delicata sia economicamente che politicamente gli Stati Uniti hanno deciso di non gravare i propri cittadini dei costi di una transizione che non è nemmeno detto possa funzionare. La Germania che ha speso più di ogni Paese europeo, si stimano 500 miliardi di euro, in rinnovabili l’ultimo inverno ha dovuto accendere le centrali a lignite e qualche settimana fa ha aperto il Nord Stream 2; i costi energetici sono tra i più alti d’Europa.



La transizione verde sarebbe complicata da gestire anche se tutti i Paesi decidessero un percorso comune senza ritardi; questo però non è lo scenario che si sta materializzando. Lo scenario che via via si manifesta è quello in cui i maggiori attori globali prendono tempo e rimandano gli obiettivi a tempi indefiniti. È una questione di buon senso perché i costi sono enormi e ritrovarsi senza energia abbondante e a buon mercato vuol dire regredire da ogni punto di vista incluso quello dell’aspettativa di vita. Il sistema industriale che ha garantito benessere e l’uscita dallo stato di povertà a centinaia di milioni di persone negli ultimi cinquant’anni ha come presupposto l’accesso a energia programmabile, abbondante e economica. L’Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale lo comprendeva benissimo e l’obiettivo dell’Eni di Mattei era esattamente quello di garantire energia abbondante, sicura e al più basso prezzo possibile; anche al costo di scontentare qualcuno. I margini di miglioramento delle tecnologie tradizionali sono ancora tanti nonostante il diesel di ultima generazione, per esempio, inquini già adesso una frazione rispetto a 20 anni. L’Europa non si pone nemmeno il problema degli aspetti molto discutibili, anche dal punto di vista ambientale, delle nuove tecnologie: dal consumo di suolo dei campi solari, alle sostanze chimiche necessarie per le batterie fino all’estrazione di materie prime.



Se il mondo intorno all’Europa frena quello che accade all’Europa che tira dritto è una perdita insostenibile di competitività del suo sistema industriale che si aggiunge ai costi per i cittadini. L’Europa non può più nemmeno contare sulla collaborazione dei Paesi in via di sviluppo che accettano di ospitare impianti industriali “problematici”. In un contesto di scarsità di prodotti e prezzi crescenti si assiste sempre più spesso a Paesi produttori che impongono limiti alle esportazioni, da ultimo i fertilizzanti, per non imporre costi ai propri cittadini. L’unica vera opzione per l’Europa che si ostina su questa strada è l’autarchia o un impoverimento di proporzioni difficili da stimare. 

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