Il rendimento del decennale italiano ieri è sceso sotto il 3,7% per la prima volta da dicembre 2022; appena due mesi fa, a metà ottobre, il decennale italiano sfiorava un rendimento del 5%. Il mercato continua a scommettere su uno scenario di calo dell’inflazione e di rallentamento che si porta dietro anche il cambio di passo delle Banche centrali.
Oggi si scontano cinque tagli dei tassi, sia per la Fed che per la Bce, nei prossimi dodici mesi. Due anni fa, sotto Natale, con l’inflazione americana già ampiamente sopra il 5% e quella europea al 5% i tassi rimanevano schiacciati sui minimi, l’1% per il decennale italiano e americano; gli investitori alla vigilia della peggiore ondata inflattiva degli ultimi 40 anni sposavano la tesi dell'”inflazione transitoria” come effetto delle riapertura post-Covid e dei colli di bottiglia sulle forniture causate dalla pandemia.
Torniamo indietro di due mesi, al 24 ottobre, e cambiamo scenario tornando alla settima edizione della “future investment Edition” a Riyadh in Arabia Saudita. In particolare torniamo alla conferenza riservata ai “changemakers” a cui hanno partecipato tra gli altri l’ad di JPMorgan, Dimon, l’ad di Goldman Sachs, Solomon, l’ad di Blackrock, Fink, e quello di Blackstone Schwarzman, oltre agli ad di un’altra manciata di istituzioni finanziarie globali (Citi, HSBC, Macquarie, Sequoia, Bridgewater tra le altre). Risentire la conferenza sapendo già cosa è accaduto sui mercati obbligazionari nelle otto settimane successive è singolare. Il 24 ottobre i tassi erano ai massimi e il crollo dei rendimenti non era ancora iniziato.
Ciò che è singolare è il coro quasi unanime emerso durante la conferenza sulla previsione di un lungo ciclo inflattivo e, di conseguenza, di tassi di interesse strutturalmente più alti. Le ragioni a supporto di questa tesi sono molteplici. Il Ceo di Blackrock, il più grande gestore globale, cita la politica fiscale estremamente espansiva degli Stati Uniti e il livello del bilancio della Fed e contempla l’ipotesi che Washington possa evitare persino un semplice rallentamento nel 2024. Gli incrementi salariali in America, nota Fink, si attestano al 20-25%. Si citano a più riprese le forze strutturali che spingono l’inflazione: la rottura delle catene di fornitura globali, le tensioni geopolitiche, politiche meno favorevoli all’immigrazione, la transizione green. L’Europa, per inciso, è in una situazione decisamente peggiore rispetto agli Stati Uniti per due ragioni: ha una crisi energetica che a Washington non esiste ed è un’economia che ha vissuto di industria ed esportazioni mentre si entra in uno scenario di conflitti commerciali.
Dovremmo concludere, visto quello che sta succedendo ai rendimenti delle obbligazioni incluse quelle italiane, che il gotha della finanza globale abbia preso un enorme abbaglio. L’altra ipotesi è che a dicembre 2023 si stia ripetendo lo stesso fenomeno accaduto a dicembre 2021 o che ci sia una divaricazione tra scenari di breve periodo e altri di lungo periodo. Il 2023 per il momento sembra chiudersi con una scommessa netta dei mercati che stride con una “scuola di pensiero” oggi minoritaria ma con esponenti prestigiosi.
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