Nella lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera sull’emergenza migranti, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha totalmente ignorato l’incidente Sea Watch 3: la violazione ostile dei confini nazionali da parte della capitana Rackete e lo speronamento di una motovedetta militare italiana da parte di una nave registrata in Olanda e gestita da una Ong tedesca.
Può darsi che l’estremo silenzio diplomatico sia stato suggerito al ministro tecnico dal suo bagaglio professionale: ma resta un silenzio oggettivamente assordante in una sortita mediatica di primo livello sul tema specifico. Il ministro, fra l’altro, non rifiuta un’ultima domanda sul “caso Lega-Russia”: questione del tutto politica e del tutto decontestualizzata rispetto al focus dell’intervista. Un’uscita che è invece parsa marcare anzitutto in modo affannoso il terreno della Farnesina dopo la nomina di Lorenzo Fontana a ministro per gli Affari europei.
L’intervista è stata rilasciata al vicedirettore ad personam Federico Fubini, lui stesso da tempo oggetto di crescenti polemiche mediatiche, anche all’interno della redazione del Corriere, per un europeismo inflessibilmente anti-italiano, sospetto di appoggio strumentale a un’opposizione tecnocratica a cosmopolita al governo Conte.
Il sospetto è peraltro avvertibile anche nell’intervista, quando Fubini – di fronte al “piano italiano” che il ministro dice di voler presentare al Consiglio Ue – chiede a Moavero se non tema “la reazione scettica degli altri governi” poiché “è l’Italia a chiudere i porti”. Secondo il giornalista, l’emergenza migranti italiana è dunque evidentemente creata dall’Italia “che tiene i porti chiusi”, mentre dovrebbe tenerli aperti, lei sola. E i partner Ue (che tengono chiusi i porti e militarmente presidiate le frontiere terrestri verso l’Italia, ma su questo intervistatore e intervistato sorvolano) non avrebbero quindi torto a mostrarsi “scettici”, spazientiti verso un’Italia per l’ennesima volta inadempiente verso quanto ha deciso la Ue: nella fattispecie a Dublino nel 2013, due Europe fa rispetto a quella che sta vedendo faticosamente la luce dopo il voto democratico del maggio scorso.
Ma se c’è un approccio che ministro e giornalista sembrano condividere in toto è appunto questo: non c’è alcuna necessità prioritaria di riformare il Trattato di Dublino. Sulle politiche europee verso i flussi migratori, il ministro degli Esteri italiano – con un vicedirettore del Corriere come “spalla” – nel luglio 2019 mostra solo riflessioni pensose e problematiche: una miscela di “aiutiamoli a casa loro”; di “chi chiede legittimamente asilo o protezione umanitaria deve poterlo fare in luoghi il più possibile vicini a quelli che lascia”, fino al lapalissiano “il sistema funziona solo se un numero sufficiente di Stati Ue aderisce. Specie i più grandi”. Un po’ di dichiarazioni di principio in stile Onu, un po’ di spicciola burocrazia brussellese.
Perfino sull’unico punto d’agenda politica immediatamente dichiarato dal neo-presidente del Parlamento europeo David Sassoli (italiano, social-democratico, compagno di partito dell’ex ministro dell’Interno italiano Marco Minniti), Moavero è ellittico, elusivo. Pare evidente la preoccupazione di preservare il più possibile quell’accordo di Dublino caro della “vecchia Ue”: siglato non a caso da Emma Bonino (ex capo della Farnesina con Enrico Letta, ex commissario Ue, tuttora in rapporti con la Fondazione Open Society del finanziere George Soros, come del resto Fubini). Un accordo europeo che – per ammissione non smentita dalla stessa Bonino – è valsa ai governi italiani di centrosinistra qualche briciola di clemenza finanziaria dopo i bombardamenti a tappeto dell’estate 2011 (in Libia e sui mercati finanziari). Che bisogno c’è di contestare e modificare le premesse strategiche (politiche e finanziarie) dell’’accoglienza imposta all’Italia dall’Europa franco-tedesca? Perché prestare ascolto a un vicepremier italiano in carica che all’ultima tornata elettorale nazionale (per il parlamento europeo) è risultato leader nel Paese con il 34%?
Come nel 2011, l’Italia – populista e sovranista, anzi ribelle, e fascista, eccetera – resta salvabile solo dalla tecnocrazia anti-politica, in stretta sintonia con l’Europa egemone. Alla vigilia dell’incerto e decisivo voto dell’Europarlamento per il presidente designato alla Commissione Ue – la tedesca Ursula von der Leyen – l’Italia gialloverde dev’essere tenuta isolata, sotto pressione. L’interlocutore di Bruxelles a Roma deve rimanere quel pezzo di “governo tecnico in auto-esilio in patria”. Meglio addirittura se è questa “resistenza interna” ad esprimere il commissario italiano alla Ue. Meglio l’ex funzionario Ue Moavero cooptato all’Antitrust che un politico leghista indicato dal legittimo governo italiano all’Industria o all’Agricoltura.