La “Bestia” di Giuseppe Conte – la cui identità è nota – stavolta non ha riciclato da Google una citazione citabile di Winston Churchill. L’ennesima foglia di fico per un capo del governo quasi indifendibile sul caso Calabria è stata il karaoke di un altro importante premier europeo della prima metà del secolo scorso: l’italiano Benito Mussolini. Tuttora citato nei manuali di storia per una frase pronunciata il 3 gennaio 1925: “Io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”.



L’assemblea era la Camera dei deputati del Regno d’Italia. Quello che era avvenuto era l’assassinio dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti: rapito e ucciso da sicari fascisti nel giugno del 1924. Matteotti si era ostinato a denunciare alla Camera il clima di broglio antiparlamentare e intimidazione populista in cui si erano svolte le elezioni politiche dell’aprile precedente. Mussolini, “premier per caso” insediato dalla marcia su Roma dell’ottobre 1922, era divenuto leader di maggioranza parlamentare. Nel 1921 il Pnf aveva conquistato solo 37 seggi su 535; tre anni dopo i due “listoni nazionali” che sostenevano Mussolini ne strapparono dieci volte di più. Merito di una legge elettorale ad hoc che il leader fascista aveva subito fatto varare nel 1923: proporzionale su voto di lista con premio di maggioranza.



Ma il Pnf da solo non sarebbe divenuto egemone senza la collusione di un vasto fronte di forze moderate e reazionarie (principalmente liberali e nazionalisti, non senza esponenti cattolici usciti dal Partito Popolare) che dopo la marcia su Roma si erano via via accodate alla premiership golpista e illiberale di Mussolini.

Il delitto Matteotti mandò definitivamente in pezzi la giovane liberaldemocrazia parlamentare italiana. L’estrema contestazione delle forze democratiche (la secessione parlamentare “aventiniana” di liberali, popolari e socialisti) si risolse in un drammatico fiasco: non da ultimo per la partigianeria pro-Mussolini del re Vittorio Emanuele III. Fu così che il 3 gennaio 1925 nell’aula “sorda e grigia” andò in scena la resa dei conti. Mussolini portò l’ultima sfida allo stato di diritto sbattendo sul suo scranno di primo ministro lo statuto albertino: che all’articolo 47 dava alla Camera il potere di votare la messa in stato d’accusa dei ministri del Re. L’esito della prova di forza fu la disfatta degli aventiniani e l’introduzione di pesanti restrizioni alle libertà individuali e collettive. Mussolini diventò “Duce” assumendosi “tutta la responsabilità di quanto avvenuto”: lungi dal dimettersi, si autopromosse definitivamente dittatore italiano. Lo fece, comunque, davanti al Parlamento, che pure quel giorno praticamente cessò di esistere: i deputati d’opposizione furono definitivamente fatti decadere nel 1926 e il voto del 1929 – l’ultimo dell’Italia liberale – fu una farsa. 



social media non esistevano ancora e neppure la tv; le veline del “Capo del Governo” ai grandi giornali e poi all’Eiar divennero invece la regola. La crisi della liberaldemocrazia italiana durò comunque un intero ventennio: fino a che Mussolini finì appeso in una piazza di Milano, distrutta dalla guerra. Avvenne con la cooperazione determinante dei servizi militari britannici: impazienti di recuperare lo scottante carteggio ante-guerra fra il Duce e Churchill. Legati da sincera ammirazione reciproca.