Le Olimpiadi sono da sempre un oggetto politico-culturale difficilissimo da maneggiare, pieno di contraddizioni e facile a ogni strumentalizzazione. Il simbolo dei cinque cerchi è programmaticamente antirazzista, ma Pierre De Coubertin lo aveva inizialmente riservato ai soli “eroi maschi”. E il suo celebre motto – “L’importante non è vincere ma partecipare” – è in sé ultra-inclusivo, ma le Olimpiadi moderne hanno sempre dovuto faticare nel tenere assieme una vocazione universalista e pacifista con un format fondamentalmente nazionalista e competitivo (che neppure nel 2024 è riuscito a imporre alcuna “tregua olimpica”, come si dice accadesse per i Giochi dell’antichità).



Adolf Hitler si rese certamente colpevole di un atto originario di intollerabile razzismo olimpico contro l’atleta “afro” Jesse Owens: ma non bisognerebbe dimenticare che il giovanissimo Owens era dovuto fuggire in patria dal segregazionismo dell’Alabama. Ed è vero che in quel giorno dell’agosto 1936 Owens aveva gettato nello sconforto l’intero stadio olimpico berlinese per ragioni eminentemente sportive: fino all’ultimo salto l’oro nel lungo era stato conteso fra il favoritissimo americano e il campionissimo di casa, Luz Long. Dopo una guerra mondiale calda e un ventennio di fredda, tornate nel 1972 le Olimpiadi in Germania, fu la nazionale Usa di basket a disertare polemicamente la premiazione a Monaco di Baviera: non accettò di aver perso con l’Urss per un punto, sulla sirena dell’ultimo secondo. Fu così che un team composto per metà da “afro-americani” rifiutò la stretta di mano sportiva ad avversari tutti “europei caucasici”.



Erano trascorsi appena quattro anni da quando – a Città del Messico nel Sessantotto – due velocisti Usa avevano alzato sul podio il pugno delle Pantere nere: un episodio che – pochi mesi dopo l’assassinio di Martin Luther King – sembrò cancellare definitivamente dal palcoscenico olimpico il nodo storico della discriminazione razziale. Da allora, ancora ben dentro il secolo scorso, il razzismo “della pelle” è via via scemato come una questione reale nello sport. La nazionale Usa di basket ha inanellato a Parigi il suo nono oro consecutivo: era composta quasi per intero da atleti afro, così come è stata una “perla nera” l’eroina numero uno dei Giochi 24 a stelle e strisce, la ginnasta Simone Biles. Ma se di quest’ultima si preferisce enfatizzare oggi la “rivincita” su una passata vicenda di molestie e depressione, la presenza di Lebron James nel quintetto Usa ha fatto nuovamente inarcare molte sopracciglia, per quanto ormai disilluse: cosa ci faceva una superstar dei Los Angeles Lakers, accreditata di un patrimonio di 1,2 miliardi di dollari, in una manifestazione nata nel verbo del dilettantismo e ancora simbolo dello sport per lo sport?



Gli “eroi afro” odierni appaiono più figli della globalizzazione di mercato (abbastanza bianca) e della dittatura (abbastanza bianca) del politically correct che delle grandi campagne (autenticamente “nere”) per i diritti civili. Il colore della pelle appare nel frattempo un feticcio superato, benché ancora utile per qualche scaramuccia politico-mediatica. Il bianco e il nero spiccano nella photo-opportunity del presidente Emmanuel Macron con Teddy Riner, stella del judo francese puntualmente in oro nell’Olimpiade in casa. Ma è difficile dire se l’immagine di una presunta/pretesa integrazione nella dilaniata Francia odierna non nasconda invece uno sfoggio irriducibile di antica grandeur nazionalistica. La messe dei successi “noir” sotto il tricolore francese è a sua volta figlia dello sfruttamento sistematico di talenti sportivi durante decenni di immigrazione tutt’altro che solidale e inclusiva, seguita a secoli di colonialismo. Il numero di medaglie “non bianche” nel palmares di un Paese come la Francia non è affatto sinonimo automatico di una società aperta e matura.

Viene da una fiera ex colonia francese – l’Algeria – la vera protagonista mediatica globale dei Giochi di Parigi: la pugile intersex Imane Khelif. È assurta a simbolo di un mondo che vuole abbattere, annacquare, azzerare ogni differenza (anche biologica) e assecondare in via assoluta ogni ricerca e pretesa – ogni “queering” – di libera identità individuale. Resta il fatto che la sua vittoria olimpica è stata celebrata da un nazionalismo tradizionale, in un Paese in cui il ruolo sociale della donna e la cultura civile (ad esempio, nel campo della libertà sessuale o religiosa) non sono quelli dei Paesi da cui sono partite le salve di applausi LGBTQR+ per Khelif. E non è detto che nella fluidità contemporanea – celebrata dalla cerimonia d’apertura dei Giochi parigini – la stella polare da inseguire sia necessariamente lei.

Armand Duplantis, medaglia d’oro nel salto con l’asta, ha fatto notizia per una delle poche imprese sportive vere, non molte ai Giochi parigini. Ha bissato la vittoria di Tokyo portando il record mondiale alla quota stratosferica di 6,25 metri. Il suo successo è finito nuovamente nel medagliere della Svezia: anche se “Duplo” è nato negli Usa, mantiene come prima cittadinanza quella statunitense, vive ancora alcuni mesi all’anno in Louisiana. È diventato “anche” svedese per via di madre – eptatleta e pallavolista – e perché il padre (in passato astista Usa di valore) è stato chiamato ad allenare a Stoccolma quando “Duplo” aveva 14 anni. Più volte il campione ha raccontato che la sua vera sfida, in questi anni, è stata imparare lo svedese, anzi: impararlo al livello altissimo in cui gli svedesi sanno usare l’inglese.

Forse la lezione più stimolante delle ultime Olimpiadi – per chi continua a cercarvi lezioni – può essere questa: quella di un millennial (bianco) che continuerà a far la spola fra l’Europa e l’America. Senza preoccuparsi di aver tolto agli Usa la medaglia d’oro con cui avrebbero potuto sopravanzare la Cina nella classifica assoluta per nazioni.

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