Con la consueta lucidità Stefano Folli ha chiarito i termini della partita che si va giocando attorno alla designazione del commissario italiano nel nuovo esecutivo Ue. Per il commentatore di Repubblica si tratta del più importante passaggio politico degli ultimi decenni e non si fatica a comprendere l’enfasi laddove l’analisi prospetta una vera e propria riforma istituzionale di fatto: lo spossessamento del governo – del governo in carica – del potere esclusivo di nomina e il suo trasferimento in misura determinante al Quirinale.
Lo status del commissario italiano a Bruxelles parrebbe evolvere così verso quello del governatore della Banca d’Italia, il cui nome viene concordato per legge direttamente fra il Capo dello Stato e il premier. A proposito: in filigrana al ragionamento di Folli sul commissario Ue è visibile una pari attenzione degli ambienti alto-istituzionali per la designazione dell’italiano che, salvo colpi di scena, fra qualche settimana subentrerà a Mario Draghi nell’esecutivo Bce.
Il precedente proposto è comunque di lettura limpida. Nel 1994, appena eletto al volgere fra prima e seconda repubblica, il neo-premier Silvio Berlusconi accettò di “condividere” con il Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro le due designazioni Ue cui all’epoca l’Italia aveva diritto. Da un metodo presentato come modello emersero – nella ricostruzione di Folli – due designazioni altrettanti esemplari: quelle di Mario Monti ed Emma Bonino. E a quel passaggio – con tutta evidenza – viene oggi invitato a rifarsi il vicepremier Matteo Salvini, che sta invece stringendo per Bruxelles su una short list di nomi strettamente politici e di appartenenza leghista, secondo gli accordi maturati all’interno della maggioranza con M5s.
Le implicazioni dello schema sono visibili. Salvini – non diversamente dal co-vicepremier Luigi Di Maio – viene inequivocabilmente bollato come unfit a governare il Paese: esattamente come l’Economist e i media portavoce dei circoli cosmopoliti giudicarono a suo tempo Berlusconi, decretandone la morte geopolitica “a prescindere”. Non importava allora che gli italiani avessero per tre volte assegnato al Cavaliere maggioranze nette in elezioni democratiche: così come oggi non ha evidentemente alcun peso il risultato del recente voto europeo e le indicazioni dei sondaggi. Come nell’autunno 2011, l’Italia non sembra poter rifiutare un abbassamento temporaneo della sua intensità democratica e affidarsi a figure terze di intermediazione in sintonia con Stati o super-Stati più potenti (anche all’interno dell’Unione Europea) e/o con i mercati. Né deve d’altronde preoccupare se tali figure non possiedono legittimità democratica nel funzionamento della Repubblica disegnato dalla Costituzione.
Monti, non a caso, passò direttamente dallo status di ex commissario Ue a quello di senatore a vita e premier tecnico. E quando – da premier tecnico in carica – corse come leader politico fu nettamente battuto al voto. Di Bonino si ricordano per lo più sconfitte elettorali, oppure successi ottenuti in temporanea alleanza con forze diverse (il centrodestra berlusconiano piuttosto che il Pd al voto 2018). La sua strutturale minorità politica interna è stata più che bilanciata dal suo legame – altrettanto strutturale – con la Open Society Foundation del cosmo-finanziere George Soros. Questo l’ha come minimo agevolata anche nella nomina a ministro degli Esteri nel governo Letta, dopo la “non-vittoria” Pd nel 2013. In quella veste Bonino ha firmato per l’Italia i controversi accordi di Dublino sull’accoglienza dei migranti in Europa: quelli che sancirono – ha poi confermato la stessa Bonino – lo scambio informale fra l’obbligo di accoglienza principale da parte dell’Italia e flessibilità sui conti a vantaggio dei governi di centrosinistra.
Resta in ogni caso aperto in questi giorni di apparente tregue estiva un confronto politico-istituzionale che Folli ha ragione di definire cruciale: segnalando fra l’altro la definitiva trasformazione del premier Giuseppe Conte in terminale interno della catena intermediaria fra democrazia italiana e tecnostruttura europea. Da un lato il cosiddetto “sovranismo” (peraltro legittimamente al governo del Paese) rivendica la piena sovranità costituzionale dell’Italia su se stessa e in Europa. Dall’altro la pressione autoreferenziale dell’eurocrazia e dei governi dominanti (in questa fase probabilmente la Francia più della Germania) fa di nuovo risuonare una propria voce in capitolo nel condizionare equilibri politici e scelte di governo in Italia.
La Lega candida un viceministro all’Economia per il portafoglio Ue dell’Industria oppure il ministro per le Politiche agricole all’Agricoltura europea? Nein, non: meglio un tecnocrate “indipendente” scelto da un premier “non eletto” d’accordo con il presidente francese (magari il suo nuovo consulente per le politiche europee, Sandro Gozi); o da Ursula von der Leyen, cui solo i voti pentastellati – formalmente unfit come quelli leghisti – hanno evitato un’umiliante sconfitta al Parlamento europeo. Un politico italiano all’Industria o all’Agricoltura, dove maturano scelte importanti per l’Azienda Italia? Un italiano vicepresidente di una commissione Ue al cui vertice non parlino solo oscuri politici lituani sugli appunti passati da un segretario generale tedesco come Martin Selmayr? No: meglio un tecnico “europeista” all’Antitrust, a fare il passacarte di dossier stratosferici sui giganti digitali, in cui gli interessi italiani non esistono o non contano. Un italiano che possibilmente non parli mai italiano, che anzi se ne vergogni sempre un po’: che magari si aggiunga ai dignitari di un’Europa “francofona”, come ha giubilato Macron dopo la nomina della von der Leyden. Quanto gli italiani che parlino anzitutto italiano siano sgraditissimi in Europa lo hanno già sperimentato sulla loro pelle Rocco Buttiglione, respinto dalla Commissione Ue per le sue posizioni anti-abortiste; e il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, cacciato e processato in Italia per la resistenza alle razzie “europeiste” nel sistema bancario italiano.