Il nuovo presidente della Corte costituzionale, Giancarlo Coraggio, ha fatto il suo esordio pubblico con un’intervista a Repubblica, perorando l’obbligatorietà del vaccino anti-Covid. Non è parso un inizio incoraggiante. Per i presidenti della Consulta sta diventando una prassi di dubbia legalità democratica “sentenziare” in corsa su temi di confronto politico aperto, a mezzo stampa e a titolo ibrido fra personale e istituzionale; dando per implicita l’espressione di un punto di vista condiviso dell’intera Corte. Lo fece Giovanni Lattanzi nella primavera del 2019: con l’inedita teorizzazione mediatica di un diritto costituzionale dei migranti ad essere accolti in Italia. Questo nel pieno del confronto parlamentare sui “decreti sicurezza”.
Lo fa oggi Coraggio, con alle spalle una vita sicuramente distinta – anche se sconosciuta ai più – di magistrato alla Corte dei conti. Ha voluto intervenire su un diritto certamente costituzionale come quello alla salute, ma anche su un diritto sanitario enormemente accresciuto ed evoluto nei decenni dalla democrazia parlamentare. Un corpus dei “diritti del cittadino malato o in cura” che costituisce ormai quasi uno statuto e non può essere sospeso da un giorno all’altro da un’intervista di un magistrato contabile promosso a giudice costituzionale. Non in spregio preventivo ai cittadini italiani “no vax”, anche se la maggioranza della popolazione e il governo in carica ritengono che le libertà legali di una parte minoritaria possano essere temporaneamente soppresse a braccio, via Dpcm o attraverso altre applicazioni dei “pieno poteri”.
La democrazia costituzionale su questo è però chiara, a maggior ragione verso un governo che da 11 mesi esercita sostanziali pieni poteri. Il premier Giuseppe Conte si assuma la responsabilità istituzionale e politica di emanare un altro Dpcm; oppure il suo Consiglio dei ministri vari un decreto-legge che il Parlamento sarebbe chiamato a convertire in legge entro 60 giorni. E se qualche italiano ritiene violati i suoi diritti – nella sostanza o nella forma del provvedimento – ricorra in tutte le sedi: l’ultima è la Corte costituzionale. (Idem per il diritto al licenziamento del dipendente “no vax” perentoriamente dichiarato a mezzo stampa da Piero Ichino: da antico parlamentare Pci il giurista dovrebbe ricordare per primo che i diritti fondamentali sono fissati dalla Costituzione e poi modulati dalle leggi prodotte dal Parlamento e quindi applicati e interpretati nei casi specifici dalle diverse amministrazioni e magistrature. La “dottrina” è solo l’ultima fra le fonti del diritto).
Per la Corte e per il suo presidente la Carta fissa compiti precisi: verificare – su ricorso di un soggetto legittimato – l’aderenza di una norma e della sua applicazione alla Costituzione del 1948. La Corte non ha funzioni legislative, riservate invece al Parlamento sovrano e all’iniziativa del Governo. Non ha compiti di alta consulenza, non il potere-dovere di interpretare in tempo reale una norma appena entrata in vigore o addirittura de iure condendo. Tutte le regolamentazioni in vigore in Italia vengono seguite e applicate dai soggetti legittimati o obbligati; e a dirimere le controversie civili o amministrative e a esercitare l’azione penale è chiamato istituzionalmente l’ordine giudiziario nelle sue varie articolazioni.
Il presidente della Corte costituzionale non deve fare politica, né dovrebbe rilasciare interviste su questioni di merito a supporto sostanziale del governo in carica. Se ritiene di pronunciarsi al di fuori dell’attività istituzionale dell’organo che presiede lo fa nelle sedi proprie e su argomenti di sua specifica competenza. Lo ha fatto lo scorso aprile Marta Cartabia in occasione della pubblicazione della relazione annuale della Corte. Già in pieno regime-Dpcm, ha ricordato in modo pacato ma fermo che la Costituzione non prevede alcuna forma di “diritto speciale”, ma solo forme proprie di applicazione del diritto ordinario (l’unico “costituzionale”) a circostanze eccezionali. E’ su questo tema cruciale che sarebbe risultata costituzionalmente opportuna un’intervista programmatica di Coraggio, che invece ha esordito avallando di fatto uno “stato delle cose costituzionali” che alla fine del 2020 ha sempre meno l’aspetto di uno “stato di diritto costituzionale”.
E’ uno stato di diritto quello in cui il presidente del Consiglio trattiene da due anni e mezzo la delega ai servizi segreti mentre la legge (finora sempre seguita) prevede tassativamente la presenza di un sottosegretario alla Presidenza titolare della delega? E si tratterebbe ancora di un passaggio di tutela minimo, in una Repubblica che avrebbe bisogno di servizi di intelligence efficienti e ha invece drammaticamente sofferto per le periodiche deviazioni di quegli apparati.
E’ uno stato di legalità democratica quello in cui il rinvio della data delle elezioni amministrative – col pretesto tutt’altro che scontato di un’emergenza sanitaria nei mesi primaverili – entra nel gioco delle opportunità di un premier non eletto e di singole forze politiche? L’ultima parola su un passaggio delicatissimo come il rinvio della scadenza-cardine della democrazia elettiva è del Presidente della Repubblica, al quale invece i media attribuiscono correntemente la volontà di congelare ogni appuntamento di voto “per non far vincere il centrodestra” o per favorire l’approdo al “semestre bianco”, se non addirittura la propria rielezione fra un anno.
Eppure meno di due mesi fa le stesse forze “democratiche” che oggi mercanteggiano la data del voto a Milano, Roma, Torino e Napoli hanno applaudito l’esito delle regolarissime presidenziali americane, grazie anche all’uso esteso del voto postale. ma continuano a sorvolare sul fatto che 31 Stati americani su 50 (a cominciare dalla California, popolata quanto l’intera Italia) hanno registrato il loro peggior giorno-Covid durante il mese finale della campagna elettorale. Sul possibile rinvio della data “sacra” del primo martedì di novembre si era interrogato per un attimo Donald Trump: subito respinto dalle violente accuse di eversione da parte dei democrat.
In Italia, nel frattempo, Conte sembra essersi dimenticato in fretta di essersi auto-paragonato a Winston Churchill: forse qualcuno gli ha ricordato che in Gran Bretagna non si votò per dieci anni di fila, ma il premier della guerra vittoriosa contro il nazismo era un parlamentare eletto da quarant’anni filati e guidò per cinque anni un gabinetto di amplissima unità nazionale. E quando la guerra finì, si votò subito e Churchill fu battuto e dovette lasciare.
Tutto quello di cui pare venuto meno il coraggio di parlare perfino al presidente della Corte costituzionale è comunque nell’agenda del governo e del Parlamento entro la data ravvicinata del 31 gennaio. Sarà trascorso un anno da quando Conte si è auto-attribuito poteri straordinari: previsti peraltro da una legislazione ordinaria: il cosiddetto “Codice della protezione civile” del 2007. E la normativa dice che una serie di “pieni poteri” resi necessari da circostanze eccezionali – essenzialmente in campo sanitario – non possono durare più di 12 mesi, salvo un eventuale rinnovo per altri dodici. Fermo restando che alcuni costituzionalisti ritengono già formalmente esaurita l’opzione-rinnovo dalle due proroghe già intervenute, tutte le questioni aperte sono evidenti.
Si tratta di un passaggio senza precedenti, soprattutto quando i “pieni poteri” sono già stati utilizzati da Palazzo Chigi largamente al di fuori di una fattispecie che il codice di protezione civile aveva certamente modellato su una calamità naturale in un’area circoscritta del Paese. Ma la “post-democrazia di Conte” non si occupa certo della ricostruzione di Amatrice; non valuta il rinvio delle scadenze fiscali, dell’apertura delle scuole o del voto in un comune appenninico. Gioca invece – ormai apparentemente fuori dal controllo del suo stesso Consiglio dei ministri e delle forze politiche della sua maggioranza parlamentare – con le centinaia di miliardi del Recovery fund o con la geopolitica in Libia o nella guerra mondiale del 5G. Gestisce in proprio il ruolo dell’Italia nel risiko selvaggio delle commesse per il vaccino-Covid. Apre d’imperio trattative para-private per la rinazionalizzazione di Autostrade. Disapplica con un tratto di penna le normative Bce sui requisiti degli amministratori di banche per consentire a un parlamentare (l’ex ministro dell’Economia Piercarlo Padoan) di diventare presidente di una banca privata come UniCredit per forzarla al salvataggio pubblico di Mps. Approfitta della sospensione temporanea dei parametri di Maastricht per varare nelle ultime ore dell’anno una maxi-manovra in deficit/debito puramente assistenzialistica e clientelare, apertamente criticata dall’Ufficio parlamentare del Bilancio.
Di tutto questo bisognerebbe discutere, anzi una democrazia ancora degna di questo nome non potrà non discutere in Parlamento entro il 31 gennaio. La vera “verifica” di metà legislatura è questa: non il rimpasto di governo.