Più di un aspetto dell’inedita crisi politica israeliana suscita curiosità, osservato dall’Italia: dove fra l’altro attorno alla senatrice a vita Liliana Segre – testimone morale sopravvissuta alla Shoah – hanno preso forma uno specifico attivismo politico durante l’ultima crisi di governo e quindi la promozione di una commissione parlamentare straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.



L’iniziativa della senatrice – che secondo Repubblica avrebbe ricevuto fino a 200 messaggi hate al giorno – ha registrato solidarietà aperta da parte del presidente della Repubblica d’Isreale, Reuven Rivlin. Il quale, peraltro, non sembra aver commentato il fatto che in questi giorni un ministro israeliano in carica (David Amsalem alle Comunicazioni) abbia augurato “di essere rinchiuso in prigione” all’avvocato dello Stato, Liat Ben Ari. Quest’ultimo è un pubblico ufficiale impegnato nell’inchiesta giudiziaria sfociata nell’incriminazione del premier Bibi Netanyahu per corruzione, frode e abuso di potere durante un’impasse politica ad oggi senza sbocchi



“E’ in corso un colpo di stato dei giudici appoggiato dai giornali di sinistra”, ha commentato il premier ad interim, alla guida di Israele da un decennio: indebolito ma tutt’altro che messo fuori causa da due round elettorali negli ultimi sei mesi. Il vero sconfitto, a settembre, è parso anzi il generale Benny Gantz, che aveva tentato il rilancio del format più classico della democrazia israeliana: il capo di stato maggiore che si trasferisce al vertice dell’esecutivo sostenuto da una maggioranza laico-progressista, come punto di equilibrio fra tutte le dinamiche (interne ed esterne, strategiche, economico-industriali e sociali) riassumibili nel postulato-imperativo “sicurezza per lo Stato di Israele”.



Il profilo consolidato del generale-premier ha ospitato figure quasi leggendarie come Yitzhak Rabin premio Nobel per la Pace, infine assassinato da un estremista religioso. Più tardi ha guidato il Paese anche Ariel Sharon, in precedenza discusso comandante dei raid militari nei campi palestinesi del sud Libano. Ma è una stagione che proprio l’era Netanyahu sembra aver mandato in pezzi forse definitivamente: tanto che non si può escludere che gli attivismi della vasta comunità israelita internazionale riflettano in parte allarmi crescenti per il presente e il futuro del sionismo, cioè dell’ebraismo in forma di Stato nazionale, realizzato dopo la tragedia della Shoa.

E’ stata comunque la “ri-popolazione” israeliana alimentata dai flussi migratori – anzitutto di ebrei ortodossi dall’Est Europa – ad aver radicalizzato gli assetti sociopolitici in direzione del nazionalismo a sfondo religioso. Israele ne è uscito trasformato nella sua struttura interna (con lo spostamento del peso elettorale verso i coloni rispetto ai professional della finanza e dell’hi-tech) e ridisegnato nel suo profilo esterno: in una nuova rete di relazioni che spazia a tutto campo fra Russia e Cina, mentre presso la grande comunità-madre statunitense hanno assunto più rilievo i legami con i repubblicani (oggi trumpiani) rispetto al tradizionale radicamento dell’intellighenzia liberal, in campo democrat.

All’indomani dei due ultimi voti la Knesset mantiene in ogni caso un volto definito: il Likud egemonizzato da Netanyahu resta centrale assieme a quattro formazioni della destra religiosa. “Blu e Bianco” di Gantz ha poco più di un quarto dei seggi. Due partiti di sinistra sono fermi a meno di un decimo, mentre si e nettamente rafforzato oltre il 10% il partito degli arabo-israeliani.

Questi ultimi hanno serrato i ranghi dopo la svolta costituzionale del 2018: che ha dichiarato Israele lo “Stato del popolo ebraico” e aperto la strada a tendenziali sviluppi etnico-sovranisti (alla lingua araba è già stata attribuito uno status differenziato rispetto all’ebraico). Sono “decretazioni-sicurezza” che gli arabo-israeliani continuano a non riconoscere, considerandole fra l’altro, fonte di nuove tensioni domestiche. Attorno ad Israele – che ha già dichiarato unilateralmente Gerusalemme capitale ed è in confrontation con l’Iran – crescono intanto anche le pressioni esterne dopo che Netanyahu ha appena strappato agli Usa di Donald Trump la legalizzazione degli insediamenti dei coloni nei territori palestinesi. Intanto, un quotidiano europeo come Repubblica fatica ormai a distinguere nettamente il governo di Gerusalemme  dagli estremisti di Hamas nell’attribuzione delle responsabilità della durezza delle condizioni dei palestinesi della Striscia di Gaza. E riferisce invece dell’espulsione – senza precedenti in Israele per un apparente realto d’opinione – del responsabile (americano) di una Ong di osservazione sul rispetto dei diritti umani nei Territori.  

Di fronte a questa situazione la democrazia israeliana e – attorno – la società ebraica internazionale si scoprono in panne. Un nuovo voto anticipato viene ancora dato per molto probabile: anche se un punto d’osservazione come l’Economist è pessimista sugli esiti di una nuova campagna elettorale “tossica” nei linguaggi. Sul tavolo – fino all’11 dicembre – resta l’opzione di un governo di larga coalizione nazionale fra Likud, Blu e Bianco Avigdor Lieberman, il leader più forte nella destra nazionalista e religiosa. Sarebbe un “mezzo ribaltone” che alcuni leader del Likud hanno preso a considerare solo dopo lo strappo giudiziario su Netanyahu e con motivazioni di esclusiva tattica politica, interna ed esterna al partito. “E’ chiaro che con Netanyahu il Likud non vincerebbe né un terzo, né un quarto, né un quinto voto”, ha detto l’ex ministro degli Interni Gideon Saar, candidandosi a possibili primarie del partito. Pur di rientrare nella stanza dei bottoni (ma non da vincente) anche Gantz continua intanto a ventilare una rotazione della premiership. Mentre la permanenza a bordo di Lieberman –  a lungo alleato di ferro di “Re Bibi” – avrebbe un prezzo predefinito: la conferma del rifiuto pregiudiziale di includere la Joint List arabo-israeliana in forme di partecipazione alla nuova maggioranza, creando così le pre-condizioni per il possibile riavvio di un processo di pace in Palestina.

Ps: con oggettiva coincidenza di tempi, Michael Bloomberg ha ufficializzato domenica la sua decisione di correre nella campagna elettorale per le presidenziali Usa 2020. Lo ha fatto mentre sta raggiungendo il massimo la pressione politico-mediatica per l’impeachement del presidente Trump. Bloomberg, figlio di immigrati ebrei russi, è stato dapprima banchiere d’affari a Wall Street, ai vertici della Salomon Brothers. Ha quindi fondato un gruppo che porta il suo nome e che è oggi leader globale dell’informazione finanziaria digitale con un terzo del mercato, avendo largamente superato Reuters. E’ stato sindaco di New York, eletto nelle file repubblicane, ma ultimando poi il mandato da indipendente. Ora ha deciso di forzare il campo democratico per sfidare Trump nel “cortile di casa” newyorchese di entrambi (partiva dalla Grande Mela anche Hillary Clinton nel 2016 ed è del Bronx Alexandra Ocasio-Cortez, la stella nascente dei nuovi democrat radical-socialisti, laici e multietnici). Quella fra Bloomberg e Trump – per ora a distanza nelle rispettive primarie – si preannuncia d’altronde una sfida classica: fra due old white billionaires della costa est. Uno israelita, l’altro padre di una figlia (Ivanka-Yael, sua consigliere speciale alla Casa Bianca) convertitasi all’ebraismo al matrimonio con Jared Kushner: finanziere e immobiliarista newyorchese, figlio di immigrati ebrei russi, editore del New York Observer, senior advisor del suocero-presidente.