La Spagna e il più importante fra i Paesi Ue che si sono dichiarati pronti a riconoscere subito uno Stato palestinese (gli altri sono Slovenia, Irlanda e Malta). La soluzione “due Stati” per la crisi infinita fra Israele e Territori è quella sostenuta ufficialmente dall’Ue, allineata con gli Usa a maggior ragione dopo lo scoppio della guerra di Gaza. Ma Madrid (reduce dall’aver retto la presidenza di turno dell’Unione) è l’unica grande capitale europea disposta alla forzatura di un riconoscimento unilaterale dell’Autorità palestinese come entità statale a tutti gli effetti. Bruxelles – piuttosto che Parigi, Berlino e Roma – rimangono invece caute mentre la crisi mediorientale sembra andare in escalation e soprattutto quando mancano otto settimane soltanto al voto per l’europarlamento. Il caso spagnolo sembra quindi meritare qualche appunto: più interrogativo che affermativo.
A Madrid governa un’inedita coalizione imperniata sul Psoe del Premier Pedro Sanchez: uscito sconfitto dalle elezioni anticipate dello scorso luglio, quando però il Partido Popular non è riuscito a garantirsi una maggioranza di centrodestra alle Cortes. Sanchez ha avuto dunque una seconda chance che ha spregiudicatamente sfruttato stringendo un’alleanza parlamentare con tutti i piccoli partiti autonomisti. Passato in secondo piano il localismo basco (un tempo protagonista di una lunga stagione terroristica), quello del momento è certamente quello catalano: protagonista nel 2017 di una clamoroso tentativo di golpe separatista.
Sfumata però in breve la dichiarazione d’indipendenza, Carles Puigdemont – Presidente dell’amministrazione autonoma di Barcellona e leader di Junts – è fuggito all’estero, braccato da un ordine d’arresto tuttora valido da parte della magistratura iberica. Ma questo non gli ha impedito di farsi eleggere “in contumacia” europarlamentare spagnolo nel 2019 e – soprattutto – di negoziare direttamente l’appoggio a Sanchez quattro anni dopo. Sugli accordi fra Psoe e Junts l’opacità è sempre stata massima, ma a metà marzo le Cortes hanno approvato un provvedimento di sostanziale amnistia per tutti i partecipanti all'”insurrezione” di sei anni fa.
La misura (molto contestata in quanto schiaffo alla magistratura spagnola e allo stato di diritto in Europa) entrerà comunque in vigore: anche se – come molto probabile – la Camera alta di Madrid si sottrarrà al voto. I tempi legali potrebbero però impedire a Puigdemont di partecipare da protagonista al voto anticipato annunciato in Catalogna dal Presidente in carica, Pere Aragones.
Quest’ultimo è il leader di un’altra forza autonomista catalana (Erc) più progressista ed europeista di Junts. Fino a fine 2022 i due partiti localisti hanno governato in coalizione, ma una rottura (nei fatti di puro potere) con Puigdemont ha obbligato Aragones a cercare supporto proprio nel Psoe. Un anno dopo, però, i socialisti hanno mandato in crisi la giunta catalana (su questioni di bilancio) forzando il voto anticipato: al quale Puigdemont (uscente da Strasburgo e dalla sua immunità) ha deciso di candidarsi in ogni caso, per tornare Presidente a Barcellona. Il primo comizio lo ha tenuto pochi giorni fa in una cittadina francese a una decina di chilometri dal confine spagnolo.
Ora Sanchez non sembra avere molta scelta al di là di quella di favorire il suo indispensabile partner di maggioranza a Madrid: al massimo nella stessa cornice di ambiguità che ha caratterizzato il “voto di scambio” nazionale con l’amnistia per gli atti eversivi del 2017. E allora cosa meglio che “geopoliticizzare” una questione nazionale?
I palestinesi eternamente “oppressi” come i catalani ancora “irredenti”. Puigdemont “riabilitato” come i leader “perseguitati” di Hamas. Nel frattempo i socialisti – in minoranza netta e progressiva sullo scacchiere politico europeo – continuano ad atteggiarsi a paladini di tutte le “buone cause” (spesso perdute) ora che ha cessato di esserlo perfino il contrasto all’antisemitismo, nei fatti sempre ingombrante per la sinistra europea filopalestinese. Nel frattempo Sanchez sembra avere buon gioco nel riverniciare di rosso, in campagna elettorale, il separatismo catalano: consolidatosi certamente in opposizione al centralismo franchista, ma pur sempre membro di un arcipelago autonomista che le élites europeiste hanno sempre combattuto strenuamente.
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