Dalla famosa svolta della Bolognina, in cui Achille Occhetto disse addio al PCI, trent’anni sembrano essere passati in un soffio.
Nel 1991, il mitico partito con la falce e il martello fu trasformato nel PDS (Partito Democratico della Sinistra). Da allora, per i Trinariciuti – come Guareschi aveva definito gli alfieri delle classi operaie e contadine – cominciò una lunga marcia costellata di cambiamenti e scissioni, che li ha portati a diventare frequentatori delle terrazze romane e dei red carpet, oltre che sodali dei cosiddetti poteri forti.
Non a caso, alcuni commentatori pungenti hanno voluto definire il Partito Democratico il partito della ZTL, in quanto votato soprattutto dai benestanti che si possono permettere di abitare in centro città. Nessuno può negare che sia diventato il principale partito di potere: nella Pubblica Amministrazione, nella Rai, nelle Aziende di Stato, nelle banche, nelle Università, nelle attività culturali di ogni genere, l’appoggio dei vertici del PD è quasi sempre stato essenziale.
La profezia di Pierpaolo Pasolini si è verificata alla lettera: “Profetizzo l’epoca in cui il potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una Nuova Inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”.
Chierici che hanno dimenticato la difesa dei lavoratori e degli umili per trafficare ai vertici dello Stato e delle grandi imprese, senza avere però sufficienti visione e competenze, e pasticciando con la comunicazione anche grazie a sedicenti spin doctor che ancora oggi imperversano nei talk show dimentichi di tutti i pessimi consigli distribuiti a piene mani a politici del tutto ignari di cosa sia la reputazione di un brand.
Perchè un partito è innanzitutto un brand, una marca, per dirla in italiano, che vive come tutti i brand di reputazione, di immagine e di obiettivi dichiarati e mantenuti.
Invece, con grande nonchalance, ad ogni perdita di voti si è pensato fosse sufficiente cambiare nome e marchio: dal PCI al PDS, dai DS al PD, sempre la stessa classe dirigente ha cambiato l’immagine, rendendo la missione sempre più sfarinata e genericamente di sinistra, intendendo con questo aggettivo non più la promozione di istanze sociali, bensì di istanze “inclusive” (ma che diavolo vorrà mai dire?) cavalcando al galoppo la woke culture soprattutto arcobaleno che – come si diceva un tempo – fa assai fino ma non impegna.>
Forse, dal punto di vista dei vertici, inclusivo significa costruire un grosso contenitore/partito in grado di raccogliere il più vasto numero di raggruppamenti elettorali, a prescindere dalle loro missioni. In questo senso, il tentativo di unire in una alleanza PD e 5S (non ne faccio una questione politica) è innanzitutto un errore di marketing talmente basico che anche uno studente del primo anno di sociologia lo capisce.
Di mutazione in mutazione, di scissione in scissione, la missione iniziale è stata talmente trasformata da far affermare con cognizione di causa al sociologo Luca Ricolfi che destra e sinistra si sono scambiate le parti.
Desta quindi un sentimento di preoccupazione sentire un docente di scuola politica come Enrico Letta affermare che ora è venuto il momento di cambiare nome, marchio, contenuti, innanzitutto all’insegna (manco a dirlo) dell’inclusività.
Lasciando spazio ai giovani del partito, che probabilmente di comunicazione e marketing politico ne sanno ben poco, abituati a gestire il potere come è stato loro insegnato, e fiduciosi nella potenza dei social e degli influencer (che come si è visto, non hanno influenzato un bel niente).
Ma ci vuole un genio per capire che una regina del lusso come la Ferragni non c’azzecca nulla con un partito di sinistra? E che con i problemi sociali che dovremo affrontare, le mezze figure già in coda per andare a guidare una zattera che sta affondando se la caveranno bene se prenderanno solo dei fischi?
Macché. Sembrano non rendersene conto. Candidandosi ad un altro insuccesso che stavolta potrebbe essere quello definitivo.
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