Caro direttore,
da giorni sta crescendo un confronto politico–mediatico – preteso “alto” – attorno al Pd: ai suoi tormenti presenti, alle sue strategie future. Soprattutto: attorno alla sua insofferenza di forza politica (presunta) “popolare” – “di sinistra” – per un governo (presunto) tecnocratico, a permanente sospetto di essere “di destra”.
Lasciami notare, anzitutto, che il polverone coincide con le scelte del governo Draghi sulle grandi poltrone pubbliche.
Lasciami registrare che l’altro ieri è divenuto ufficiale il cambio della guardia deciso dal Tesoro al vertice Cdp, dove certamente il Pd non avrebbe disdegnato la conferma, come amministratore delegato, di Fabrizio Palermo. Un banchiere di competenza non certo inferiore a quella dell’entrante Dario Scannapieco, ma inequivocabilmente designato nel 2018 su indicazione di M5s e poi adottato anche dal Pd dopo il ribaltone Conte 2. E di Palermo è stato certamente apprezzato – dalla coalizione giallorossa mai nata veramente ma neppure mai morta – l’impegno nel tentativo di ristatalizzare Autostrade. Un progetto che ora potrebbe tornare in discussione: Draghi – a differenza del suo allora premier Romano Prodi – non sembra disposto a rinnegare con leggerezza, un quarto di secolo dopo, la stagione delle privatizzazioni e liberalizzazioni europeiste.
Lasciami appuntare che il Pd per primo non ha battuto ciglio quando Ferruccio de Bortoli ha fatto sapere di aver rinunciato alla proposta (quasi sicuramente giuntagli da Draghi) di andare a presiedere la Rai. Per le varie correnti dem, evidentemente, la partitocrazia sul poltronificio televisivo pubblico non si può discutere neppure nel 2021. Draghi faccia pure il premier, ma giù le mani da Viale Mazzini. De Bortoli venga pure in video come competentissimo testimonial giornalistico, ma resti a Milano, al Corriere della Sera.
Lasciami osservare, non da ultimo, che l’escalation critica dei dem verso il governo di unità nazionale si muove parallela ai progressi del progetto di riforma della giustizia che il ministro Marta Cartabia sta rapidamente ultimando, come primo impegno del Pnrr presentato alla Ue. Da quasi trent’anni la vera e intoccabile “base sociale” del Pd – e prima ancora dei Ds – è la magistratura militante: non certo i giovani precari o i lavoratori dipendenti del settore privato. La patrimoniale sulle successioni evocata da Enrico Letta è certamente utile al “dibattito”, così come lo scontro – parecchio plateale – sulla fine del blocco dei licenziamenti il 31 agosto piuttosto che il 30 giugno. Ma appaiono alla fine diversivi tattici rispetto alla partita sulle poltrone del Csm e su quelle dei grandi uffici giudiziari: sul riequilibrio fra politica e giustizia che il governo sta doverosamente perseguendo (sotto lo sguardo attento del Quirinale) dopo il “caso Palamara”, epitaffio di una lunghissima stagione.
La vera “crisi del Pd” rimane quella di una forza politica ridotta a essere una sorta di “partito obbligatorio di governo”: strutturalmente incapace di imporsi al voto nella competizione democratica, ma nel contempo anche di rinunciare alle posizioni di potere… Giustificandole sempre in nome di una sempre meno precisabile superiorità etico-politica. Un partito per definizione più uguale degli altri: che se per caso i sondaggi spingono al di sotto di FdI (l’unico partito italiano guidato per davvero da una donna) “s’interroga e interroga”.
In questi giorni si è celebrato il quasi-trentennale della strage di Capaci. Pochi giorni dopo, nel 1992, venne eletto al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro. È da allora che il centrosinistra controlla saldamente la prima carica dello Stato (neppure il laico Carlo Azeglio Ciampi – ministro del Tesoro nel Prodi 1 – può essere considerato come un presidente veramente indipendente; certamente imparziale, ma non equidistante rispetto al centrodestra berlusconiano, leghista, finiano). Dopo l’avvento di Scalfaro (all’indomani dell’ultimo voto della prima repubblica) si sono tenute sette elezioni politiche. Prima dello spartiacque della crisi finanziaria 2008 tre hanno registrato l’affermazione netta del centrodestra. Una consultazione è stata vinta dal centrosinistra, ma non prima di un intervento “presidenzialista” di Scalfaro a tagliare subito la strada al primo governo Berlusconi. E il quinquennio dell’Ulivo ha visto comunque succedersi ben tre esecutivi (Prodi 1, D’Alema e Amato 2). Una seconda volta le urne hanno assegnato la vittoria sul filo al centrosinistra per 24mila voti molto controversi. E quella “simil-vittoria” ha prodotto una legislatura “mutilata” e l’elezione parecchio divisiva di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Cinque anni dopo è stato proprio Napolitano a tagliare con l’accetta il nodo aggrovigliato in Italia nell’estate 2011 essenzialmente da eventi esterni di origine geopolitica. Se Berlusconi è stato estromesso per un decennio, il Pd è rientrato al governo allora – con Mario Monti – e non vi è mai più uscito salvo che nei quattordici mesi del Conte 1.
Nel frattempo ha “non vinto” le elezioni 2013, governando tuttavia per i cinque anni successivi grazie al determinante “prestito” dei senatori berlusconiani capitanati da Denis Verdini. E non c’è dubbio che Napolitano – pur all’interno delle prerogative formali del Quirinale – abbia favorito la doppia rottamazione del leader Pd Pierluigi Bersani e del premier Pd Enrico Letta. È stata così promossa l’ascesa “a pieni poteri” del sindaco di Firenze Matteo Renzi, mai eletto in Parlamento. Neppure lui tuttavia è riuscito a concludere la legislatura a Palazzo Chigi: l’esito rovinoso del referendum 2016 – affrontato da premier e segretario Pd in carica – ha capovolto la vittoria alle europee del 2014 (l’unica vera ascrivibile dal 2007 ai dem su scala nazionale). Il resto è ancora cronaca: con il Pd già impegnato a “rinarrare” in tempo reale come atto di responsabilità politica sia l’adesione al ribaltone del 2019 sia il tentativo (fallito) di evitare la caduta parlamentare del Conte 2.
Dal 2011 si sono susseguiti sette esecutivi: nessuno è stato guidato da un premier chiaramente indicato dagli elettori, cinque sono stati pilotati da non parlamentari. Il Pd ha intanto occupato le stanze del potere per più tempo di quanto abbia fatto quando ha vinto le elezioni. È riuscito a imporre anche i due ultimi commissari Ue (ma dal 1994, salvo Franco Frattini e Antonio Tajani, tutti i commissari italiani a Bruxelles sono usciti dalle fila del “centrosinistra allargato”, a cominciare da Prodi presidente della Commissione). I dem sono riusciti perfino a strappare la presidenza in corso del Parlamento Ue con David Sassoli: nonostante Pd e S&D abbiano riportato netti arretramenti in Italia ed Europa al voto del 2019. Un “deputato di fila” Pd di Strasburgo come Roberto Gualtieri è stato catapultato a Roma a pilotare il Mef; è stato subito imposto come parlamentare alle suppletive di Roma già in tempo di pandemia (eletto con affluenza del 17%) ed è ora stato elevato a candidato-sindaco di Roma.
Letta promette ora “Anima e cacciavite per ricostruire l’Italia”. Di certo avrà bisogno di più di un libro per ricostruire il Pd.
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