È dal 2009, l’anno della “42”, che le Province vivono nell’incertezza sul proprio futuro, anche (ma non solo) per la comparsa sulla scena di quella mitica creatura concorrente prevista già dalla legge 142/90, ovvero la Città metropolitana, sulla cui realizzazione molti di noi studiosi avevano concentrato un’attenzione ingenuamente sproporzionata (lo scrivente, in particolare, per la candidata più credibile dopo Roma, ovvero Milano). Nel decennio che va dal 1992 al 2002 avevano goduto di un’espansione del proprio ruolo sia per quanto riguarda le funzioni (vedi decentramento amministrativo previsto dalle leggi Bassanini, a partire dal 1997), sia per l’acquisizione di nuove e più ampie forme di finanziamento, fra l’altro improntate – quest’ultime – a dei modernissimi principi di perequazione che (inevitabilmente) scontentarono qualche provincia colpevole di “sovradotazione” di risorse (lo scrivente è lieto di essere stato, in quegli anni, accanto ai valorosi tecnici del ministero degli Interni che affrontarono il problema, sino ad allora eminentemente politico…).



Proprio il coinvolgimento, addirittura maggiore per le Province che per i Comuni, nel processo di decentramento avvenuto nel decennio di cui qui si parla e che aveva il proprio perno nelle Regioni rende perplessi sulle giustificazioni avanzate solo alcuni anni più tardi per annullare quegli indubbi progressi (chè di progressi si trattava, in un Paese che aveva appena “sistemato” il decentramento regionale e sentiva la necessità di una devoluzione ulteriore di poteri e risorse a Comuni e Province, Enti ancor più vicini ai cittadini). Certo, non molto accadde tra il 2002 e il 2009, anni contrassegnati da una notevole stabilità dei bilanci degli Enti intermedi, eccezion fatta per il 2005.



L’incombente richiamo della “provvisorietà” della loro vita (come per i credenti lo è il motto “memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris”) le Province lo ritrovano già nella legge 68/2011, attuativa della legge 42/09, dove si sottolinea la natura provvisoria del provvedimento “in attesa” della soppressione degli Enti o comunque di una loro razionalizzazione: richiamo poi confermato dalla legge 214/2011. Segue il decreto legge 95/2012 dove si affida al Governo il compito di riorganizzare le Province sulla base di parametri demografici e territoriali, ai quali comunque avrebbero dovuto rapportarsi i costi di strade, scuole e trasporti extraurbani, che si davano per ridotti dalle nuove ipotetiche economie di scala.



Il tutto viene annullato dalla Corte costituzionale e, dopo un faticoso iter procedurale, si giunge alla famosa legge 56/2014, la legge Delrio. Concordo in pieno con l’opinione espressa in questi giorni su queste pagine dal collega Mangia, quando dice che il riordino organizzativo – frutto dell’ansia dell’urgenza, e fatto con interventi legislativi sbagliati – “è un punto che politicamente può essere rilevante, ma non lo è granché da un punto di vista pratico”. Infatti: dal punto di vista pratico ci si deve preoccupare di chi farà le strade e provvederà alle scuole se si persegue ostinatamente il bersaglio della polverizzazione dei bilanci provinciali senza fornire credibili (e pronte!) alternative. I prelievi degli anni 2013-2016 dai bilanci provinciali per adempiere alle “sacre” manovre di rientro sono stati i seguenti (in mld.): 2,80 nel 2013; 4,18 nel 2014; 5,23 nel 2015; 6,55 nel 2016, per un totale di quasi 19 miliardi, un terzo circa dei complessivi 56 miliardi dei quattro bilanci: un trattamento proporzionalmente assai più severo di quello riservato a Regioni e Comuni, e un vero preludio a quella morte per asfissia strenuamente voluta dalla legge Delrio.

Guardando all’Europa, riesce davvero difficile rassegnarsi alla morte delle Province in Italia. Pur istituendo le sue Regioni, la Francia ha mantenuto e finanziato finora tranquillamente i suoi 100 Dipartimenti (oltre che i suoi 38.000 Comuni!), la Germania dei 16 Laender e dei 12-300 Comuni mantiene serenamente i suoi 408 Kreise, la Spagna degli 8.300 Comuni conserva le sue 50 Province (un suggerimento all’Italia di proseguire sulla strada della razionalizzazione del numero, da 107 a 60, come si era ipotizzato nella fase delle riforme post-2009?). All’obiezione: no problem, gli investimenti e le altre spese correnti delle Province verranno “passati” alle Unioni di Comuni, viene spontaneo rispondere: ma la Francia, che ha per 50 anni contato sulle Unioni, dotandole anche di robusti finanziamenti anche specificamente finalizzati agli investimenti, ha per questo rinunciato all’apporto storico e produttivo dei Dèpartments? E a quali Enti intermedi i Laender affidano gran parte delle proprie risorse per il finanziamento delle proprie dotazioni infrastrutturali di secondo livello? Ai Kreise…

Alla fine della fiera, si scopre che la migliore interpretazione del concetto di “area vasta” prevalente in Europa e che sarebbe il caso di riportare in Italia (vedi Convegno “La primavera delle Autonomie locali”, tenutosi recentemente in Piemonte) è quella quasi del tutto identificabile con la tradizionale provincia, magari razionalizzata nella scala territoriale (in Emilia si pensa a quattro al posto delle storiche nove; in Lombardia a otto “cantoni”, con Milano Città (meritatamente) Metropolitana; altrove si utilizzano espressioni più fantasiose…). Comunque le si vogliano chiamare, è un vero peccato perché a fronte di progetti “cantierabili”, nei prossimi due anni, per oltre 3 miliardi in scuole e rete viaria, dei quali il Paese avrebbe particolarmente bisogno in questo momento, le Province (107? 60? Non importa) darebbero un forte contributo alla ripresa già in atto, facendo l’opposto di quello che Keynes invocava (ovvero tappando le buche, in questo caso quelle delle strade che portano ai luoghi di vacanza…).