La letteratura ci offre, dalla Bibbia e dall’Iliade in avanti, un repertorio sterminato sul tema della città, del vivere in città, della forma della città, del valore della cittadinanza. Abbiamo i ritratti contrastanti di Sion e di Sodoma, quello di Tebe tormentata da mali arcani e guerre fratricide, quello di Troia crudelmente devastata dall’ineluttabilità dei disegni divini, quello di Atene capace di trionfare perfino sulle leggi del sangue. E poi ecco la città medievale, le due città di Agostino, i molteplici ritratti – spesso fulminei – che ne fa Dante nella Commedia, e così via fino al cuore dell’età moderna, con la Parigi macilenta e malata di Balzac e Hugo, la Milano demente, affamata, pestilente di Manzoni che contrasta con quella vitale e felice di Stendhal, la Roma di Montesquieu e di Goethe, giù giù fino a noi.



Nella mia vita mi sono occupato spesso di città. Mi affascinano il suo caos, le sue mille voci, il suo brusìo che parla e dice – basta saperlo ascoltare – così come parla e dice il brusio di una lingua sconosciuta nella quale ci sentiamo avvolti (pensiamo a un viaggio in Cina) come dentro un vestito: non percepiamo i significati delle parole, ma il loro senso lentamente ci diventa familiare, fioriscono sorrisi, dialoghi impossibili dentro un negozio dove però alla fine acquisteremo comunque qualcosa. C’è sempre un punto privilegiato in cui il racconto che la città fa di sé diventa più limpido, più profondo: e quella – come scrissi anni fa – è la cattedrale di quella città, magari dissimulata sotto le sembianze di un grande magazzino o di una stazione ferroviaria.



Ci sono domande, riguardanti una città, che perdurano oltre ogni ragionevole risposta e che si legano al suo stesso mistero, alla sua radice antropologica, al fatto che c’è nella natura degli uomini qualcosa che li spinge a mettersi insieme liberamente, e a dare a questo mettersi insieme la forma di un progetto, e l’Italia è, da questo punto di vista, un laboratorio formidabile, un oggetto di studio inesauribile.

Non ci sono due città che abbiano la stessa origine, che obbediscano allo stesso progetto. Talune hanno radici che si perdono addirittura nella preistoria – come Matera, o Aleppo, o Ragusa -, altre nascono dalla volontà di un sovrano, come Madrid o san Pietroburgo. E la diversità delle loro storie segna il carattere dei cittadini, anche a distanza di secoli.



Nella rassegna Città e bellezza, al Meeting di Rimini di quest’anno, mi propongo di indagare intorno ad alcune di queste domande. Si tratta di tre incontri che portano, rispettivamente, i seguenti sottotitoli: “Presenza del presente”, “Presenza del passato” e “Presenza del futuro”. Queste tre dimensioni, infatti, devono essere sempre presenti e contemporanee tra loro dentro la vita di una città, e la loro armonia o disarmonia determina la forma di questa vita, il modo di affrontare i problemi, i disagi, di stabilire le priorità.

Cosa permette a una città di funzionare? Quali fattori – economici, culturali, urbanistici, amministrativi e perfino psicologici – ne permettono il rilancio, oppure ne mortificano il cammino? Chi amministra una città deve gestire i problemi dei cittadini o deve anche aiutare questi ultimi a percepirne il senso? Quando diciamo “sicurezza” siamo sicuri di sapere quello che intendiamo? Che rapporto vive, oggi, una città con il suo passato? Che rapporto stabilisce, o dovrebbe stabilire, tra la sua parte “artificiale” e la sua parte “naturale”? Esiste un modo per rendere virtuoso il rapporto pubblico-privato? Quando si intraprende un nuovo progetto (edilizio, urbanistico) come si concilia l’interesse di chi lo avrà in proprietà con quello dell’intera cittadinanza? Che posto ha la progettualità nel presente di una città? Una città può avere un presente se non immagina continuamente il suo futuro? Può esserci, in altre parole, una “città di oggi” se non contiene fin d’ora anche quella (o quelle) di domani?

Perché è un fatto che siamo sempre obbligati a occuparci del futuro – con tutti i margini di errore (e quindi anche di spesa a fondo perso) che questo comporta.

La bellezza di una città non sta nei monumenti o nelle opere d’arte che contiene, ma nella sua capacità di far fronte a questi interrogativi, fornendo ad essi una risposta originale, incontrabile perché originale, desiderabile perché originale. Per questo – per quanto ciò possa apparire assurdo – oggi la gente va più volentieri a Milano che a Roma. Alla domanda “perché ami i quadri di Picasso?”, Gertrude Stein rispose: “mi piace guardarli”. Allo stesso modo è per le città. Ci piace andare in alcune, in altre meno: perché?

Gli incontri di Rimini non pretendono di fornire risposte e programmi, ma solo di far luce su queste domande, perché la chiarezza delle domande è, come sempre, il primo fattore di soluzione. Si può dire che una città è tanto più viva quanto più le sono chiare le domande alle quali deve rispondere.

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