Nel giorno del “Pride” ho visto un sacco di pubblicità. Robe che uno non si immagina. Ne ho viste di tutti i colori. Non parlo di spot relativi ad associazioni o movimenti coinvolti con il giorno della manifestazione. Parlo di brand. Le solite aziende – quelle che per tutto l’anno ti vendono aspirapolvere, film, spaghetti, scarpe col tacco – si sono comprate cartelloni, banner, vetrine. Però non hanno riempito questi spazi di prodotti. Si sono scattate un bel selfie in cui hanno vestito il loro nome/logo/brand con i giocosi colori dell’arcobaleno. E poi giù a strizzare l’occhiolino al passante, al Facebook o Instagram addicted.



Come dicessero: “Carissimo cliente – passato, presente o futuro – non importa quello che ti vendo in tutti gli altri giorni dell’anno, se di qualità artigianale o cinesata pazzesca, se caro come il fuoco che incendia questi giorni o a prezzi stracciati, ma sappi che oggi sono anche io multicolor, come il buon vecchio monoscopio. Quindi: se fai parte dei ‘Queer’ io sono dalla tua parte; se sei ‘Normale’ ma nello stesso tempo anche open mind e tollerante, io sono dalla tua parte; (se invece… sei un tipo tradizionale, scettico e un po’ bacchettone stai tranquillo: l’abito non fa il monaco. Io oggi mi vesto così perché il marketing è spietato bellezza, e non puoi chiedermi di restare indietro. Domani tornerò quello che sono sempre stato, keep calm e goditi un pò di fresco nei nostri negozi con l’aria condizionata)”. 



Mi sbaglierò, ma qualcosa – in tutto questo folclore – puzza. Le aziende lo sanno bene: se non si vestono con colori un po’ a caso, perdono punti, clienti, peso. Perdono peso come il mio gatto quando fa proprio tanto caldo.

Per un giorno, l’abito fa il monaco. Per oggi, rainbow is the new black e buona trippa per tutti.

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