Le proteste seguite all’omicidio di George Floyd stanno devastando gli Stati Uniti in ciò che più contraddistingue quella nazione: la memoria storica. In un paese immenso, con una storia così recente, i monumenti eretti per commemorare eventi, vittime od eroi sono notevolmente diffusi e hanno l’obbiettivo di unificare razze e culture nell’amore per il proprio paese. Le notizie dei giorni scorsi sono di quelle che colpiscono al cuore: decine di monumenti sfregiati o deturpati in una confusione totale di manifestazioni e contromanifestazioni. Si pensi che, solo a Boston, il 31 maggio vi sono state proteste sia dei Black Lives Matter, per la morte di Floyd, sia di quei simpatici pazzerelloni di “Super Happy Fun America” che protestavano contro il lockdown anti-Covid-19 imposto dal governatore oltre a contromanifestazioni pro Trump. Nel caos generale i monumenti deturpati sono stati almeno 16 nella sola Boston e, tra questi quello a Robert Gould Shaw e ai suoi eroici soldati neri del 54° Massachusetts, sito in Beacon Street: una vicenda rievocata splendidamente nel film Glory (1989) di Edward Zwick e che è fonte di ispirazione e di forza morale per chiunque la conosca.
A riprova dello scempio è stata esibita la foto del monumento con i soliti graffiti: “ACAB”, “R.I.P. George Floyd” e così via.
La stampa italiana di destra ha commentato il misfatto con toni prevedibili, imputando alla sinistra liberal l’attuale sfacelo. Tra gli altri, interessante l’articolo di Roberto Vivaldelli su Il Giornale nel quale si enumerano i numerosi vandalismi avvenuti. È stata osservata, nella distruzione dei monumenti storici, la disintegrazione dell’unità di un popolo, effetto del “politically correct” che privilegia la difesa dell’identità, singola o tribale, in luogo della costruzione di una unità politica e culturale che trascenda le differenze.
Un’analisi che potrebbe essere esaustiva se ogni tribù colpisse i monumenti della tribù avversaria in un clima da seconda guerra civile americana: i neri abbattono le statue dei generali sudisti e i suprematisti imbrattano il memoriale dell’antischiavista Robert Shaw e dei suoi eroi.
E invece le cose non stanno così. Le scritte sui monumenti di Boston sono quelle dei Black Lives Matter. Fosse un caso isolato si potrebbe pensare anche una provocazione o a una false flag. E invece vengono colpiti anche i monumenti alle vittime del genocidio armeno a Denver e persino quello ai tre neri innocenti che furono linciati a Duluth esattamente cento anni fa, il 15 giugno 1920. Al contempo, laddove vi sono rapporti di forza favorevoli ai conservatori, la statua di Nathan Bedford Forrest, generale sudista, capace quanto spietato, fondatore del Ku Klux Klan, viene difesa dalle autorità con ogni mezzo.
Qui si tratta di uno sfacelo educativo generale nel quale la sinistra liberal ha responsabilità preminenti ma non esclusive. Se la teppaglia nera colpisce anche i simboli cari ai propri padri che hanno sofferto e lottato per dare loro libertà e diritti, ciò significa che non c’è stata “tradizione” di ciò che vale e la responsabilità è degli stessi neri. Eppure la questione “identitaria” con tutta la sua protervia culturale non è forse anche il cavallo di battaglia della destra conservatrice sia in Europa che negli Stati Uniti, a scapito di qualsiasi giudizio equilibrato ed oggettivo?
È questo fallimento educativo generalizzato che fa assomigliare il nostro tempo agli anni Trenta che generarono la seconda guerra mondiale e la successiva rinascita dalle macerie. Secondo Chesterton “Solo quando avete fatto naufragio sul serio, trovate sul serio ciò che vi occorre”. Ma verrebbe da chiedere a Chesterton se è proprio necessario un naufragio per recuperare il buon senso e l’amore per la realtà.