Il grottesco dibattito riapertosi sul tema delle province come sempre è fuori mira. Il punto di partenza reale per occuparsi della questione non dovrebbe essere lo schieramento da tifosi per “province sì” o “province no”, bensì la valutazione dei risultati conseguiti dalla riforma che è già stata fatta, per capire se essa necessita di correttivi.
Naturalmente, sia le compagini politiche, sia la gran parte della stampa, si stanno comportando semplicemente da tifosi, rinvigorendo ormai stanche e abusate giaculatorie sulla “riduzione del numero degli amministratori”: slogan veri e propri, privi di qualsiasi valutazione di impatto e tecnico-giuridica della riforma delle province, targata Delrio, quello stesso ministro, allora per gli affari regionali, poi a capo del ministero delle Infrastrutture quando venne approvata un’altra riforma disastrosa, il codice dei contratti. Su quest’ultimo l’epifania del suo fallimento è stata compiuta da un po’ e, infatti, siamo all’ennesimo correttivo (il d.l. “sblocca cantieri), anche se ancora non sufficiente. Sulle province, invece, si registra ancora una certa riottosità a prendere atto del micidiale fallimento della legge Delrio. Forse, semplicemente perché per troppi anni la stampa, i talk show e ogni manifestazione di pensiero ha irrazionalmente sostenuto a spada tratta, e contro ogni evidenza, la necessità della riforma.
Basterebbe, allora, guardare semplicemente ai dati e alla realtà per rendersi conto che l’intervento sulle province è stato semplicemente un disastro e, quindi, per rendersi conto che in qualche misura ai disastri occorre rimediare. Come sta accadendo per il codice dei contratti. Per comprendere gli effetti della riforma, basta fare riferimento alle fonti ufficiali di analisi, redatte da soggetti terzi con compiti di referto. O anche alla giurisprudenza della Consulta. Il quadro che ne deriva è semplicemente disarmante.
Ad esempio, La Corte dei Conti, Sezione delle Autonomie, con la deliberazione 4/2018 ha bocciato senza appello la riforma, già a partire dall’analisi sul 2016: “La sostanziale indisponibilità delle entrate proprie assorbite dagli obblighi di concorso alla finanza pubblica attraverso le manovre fiscali ha reso le Province e le Città metropolitane sempre più dipendenti dai trasferimenti statali e il mancato completamento della riforma costituzionale ha generato un’asimmetria tra compiti affidati e risorse assegnate che ha condotto ad un deterioramento delle condizioni di equilibrio strutturale dei relativi bilanci. … Proprio la mancanza di un adeguato finanziamento di tipo strutturale alle funzioni fondamentali ha penalizzato la possibilità di una corretta visione pluriennale e, di conseguenza, la capacità di programmare rendendo inconsistente la spesa per investimento degli Enti“.
Non migliore è il quadro della riforma tracciato dal dossier “Ex Province” dell’Ufficio valutazione di impatto del Senato. Era stato affermato, dai paladini della riforma, che le funzioni “non fondamentali” delle province sarebbero state attribuite ai comuni: l’Ufficio valutazione dimostra che in gran parte queste funzioni sono state acquisite dalle regioni (comprensibilmente: le province svolgono, come ovvio, funzioni sovracomunali, che i comuni non sono in grado, per propria natura, di assolvere); ancora, gli araldi della riforma avevano affermato che i “tagli” alla spese delle province avrebbero consentito una razionalizzazione: al contrario, l’Ufficio valutazione dimostra il crollo della spesa per investimenti e uno squilibrio di bilancio endemico.
Argomentazione principale, poi, dei sostenitori dell’intervento sulle province, era quello dei fantasmagorici “risparmi”, dovuti ai “tagli” alla spesa. In effetti, un complesso di leggi adottate già a partire dal 2010 (quando la campagna di stampa contro le province si era fatta particolarmente virulenta), ha determinato tagli complessivi alla spesa delle province per circa 5,300 miliardi a regime, a partire dal 2020.
Chi ha acriticamente sostenuto la necessità di abolire le province ha parlato di un intervento salutare, che avrebbe consentito di ridurre la spesa pubblica e le tasse: l’allora Ministro Delrio parlò della possibilità di utilizzare i risparmi per costruire 1.000 asili nido in tutta Italia. La realtà è tutt’altra. Di asili nido non si è vista nemmeno l’ombra, così come le tasse non sono state per nulla ridotte, mentre la spesa pubblica ha continuato ad aumentare.
La ragione di ciò è semplice: la legge 190/2014, finanziaria per il 2015 e contenente le misure finanziarie attuative della riforma Delrio, non ha previsto alcun “taglio” alla spesa pubblica, ma solo ai bilanci provinciali. Le province, trasformate in gabellieri per conto dello Stato, hanno continuato a intascare fino all’ultimo centesimo le entrate tributarie: ma, invece di destinarle al finanziamento delle proprie funzioni, sono state costrette a girarle allo Stato, che ha continuato a spendere quelle risorse, però per altre funzioni. Creando, così, due danni rilevantissimi.
Il primo è stato percepito quasi subito dalla gran parte dei cittadini, i quali si sono accorti che ormai le strade provinciali sono dei colabrodo impraticabili, prive dei necessari investimenti in manutenzione (la tragedia di Rigopiano, come anche i continui crolli di ponti, sono sicuramente ricollegabili alla chiusura dei rubinetti degli investimenti delle province); anche le scuole superiori sono praticamente prive di manutenzione e di rinnovo degli arredi.
Il secondo danno è di natura finanziaria: la legge Delrio aveva previsto che traslando le funzioni non fondamentali delle province verso altri enti, questi ultimi avrebbero dovuto utilizzare i finanziamenti connessi. Ma, così non è stato. Lo attesta la sentenza della Consulta 137/2018, che ha evidenziato un vizio di costituzionalità gravissimo della riforma, passato sotto silenzio. Afferma la Consulta: “Nel momento in cui lo Stato avvia un processo di riordino delle funzioni non fondamentali delle province, alle quali erano state assegnate risorse per svolgerle, in attuazione dell’art. 119 Cost., questa stessa norma costituzionale impedisce che lo Stato si appropri di quelle risorse, costringendo gli enti subentranti (regioni o enti locali) a rinvenire i fondi necessari nell’ambito del proprio bilancio, adeguato alle funzioni preesistenti“. Invece, lo Stato si è appunto appropriato delle risorse, creando veri e propri buchi di bilancio nelle regioni, aggiuntivi agli squilibri determinatesi nei bilanci delle province.
Ma a fare le spese di tutto questo disastro non sono stati soltanto gli enti regioni e province: sono stati soprattutto i cittadini, che hanno visto le scuole superiori divenire fradice, le strade provinciali impraticabili, ridursi gli interventi sociali per studenti disabili, dal trasporto in loro favore agli operatori di sostegno per disabili sensoriali.
I dati, le analisi e la giurisprudenza, più che mettere sotto accusa la riforma Delrio, la condannano senza appello.
Nessun Governo e Parlamento possono permettersi di continuare a trattare la questione come chiacchiera da bar. Le province svolgevano (e, per la parte rimasta, svolgono) funzioni e servizi rilevanti, assolutamente inidonei alla dimensione comunale. E queste funzioni necessitano di finanziamenti per la spesa connessa, qualunque sia l’ente che le gestisca. Non era assolutamente possibile immaginare di intervenire sull’ente provincia per tagliarne la spesa, senza determinare poi sconquassi finanziari e disservizi ai cittadini, come puntualmente accaduto.
Se una volta per tutte si sarà capaci di prendere atto del disastro derivante dall’improvvida iniziativa normativa attivata dall’allora Ministro Delrio, il dibattito potrà finalmente spostarsi. Non interessa per nulla il discorso populista sul numero delle sedie politiche in meno o in più che si dovessero creare se le province tornassero a essere enti eletti direttamente dal corpo elettorale (come, peraltro, appare inevitabile, una volta bocciata la riforma della Costituzione, della quale la legge Delrio – con previsione sicuramente incostituzionale – si era dichiarata anticipatrice). Ciò che conta è come intervenire sul livello intermedio tra comuni e regioni, presente peraltro in tutta Europa a partire dalla Germania, per ridare fiato agli investimenti e servizi ai cittadini.