Mentre le “sardine” si scongelavano all’improvviso per puntellare il segretario dimissionario del Pd Nicola Zingaretti, il leader del Ppe all’europarlamento, il tedesco Manfred Weber, dichiarava al Corriere della Sera il suo totale sostegno al Premier italiano Mario Draghi nella sua controffensiva geopolitica sul fronte dei vaccini-Covid. La coincidenza non è utile soltanto ad assegnare pesi corretti a scene e interpreti sulla corrente ribalta politico-mediatica. Fra le traiettorie di “sardine”, Pd, Zingaretti, Ppe, Weber, Draghi è possibile scorgere anche interessanti nessi diretti.
Le “sardine” si ripropongono come sublimato contraddittorio della più recente stagione del Pd: quella della coalizione di governo con M5S e con Leu e Iv, due formazioni scissioniste dallo stesso Pd. Le “sardine” hanno subito rappresentato l’estremo e stregonesco azzardo antipolitico da parte del più “politicista” dei partiti (erede unico di Dc e Pci). Contrariamente al look mediatico, le “sardine” non sono nate come “movimento”, non lo sono mai state e non lo sono oggi. Le “sardine” sono state inventate a tavolino in uno dei molti think tank impiantati a Bologna da Romano Prodi: e non per caso hanno reso omaggio pubblico (e controverso) alla famiglia Benetton, tuttora proprietaria di Autostrade dopo due anni di vani assalti M5S.
Le “sardine” sono state concepite – si discute ancora con quale peso effettivo – per un’operazione tattica di potere, massicciamente appoggiata dall’oligopolio tv (Rai, Mediaset, La7): la resistenza elettorale del Pd “prodian-comunista” in Emilia-Romagna, dopo mezzo secolo di “pieni poteri” regionali, minacciati dall’avanzata della Lega di Matteo Salvini.
Un anno fa, il governatore Stefano Bonaccini è riuscito infine a prevalere – anche se non a stravincere – e ha subito pagato il suo debito con Prodi: chiamandolo – le “sardine” direbbero con un’operazione “da salotto” – come primo consigliere per la politica industriale regionale (il primo risultato è stato l’investimento deciso in Emilia da un colosso cinese dell’auto). Pochi mesi dopo, Bonaccini è considerato il vero leader “in pectore” di un Pd da rifondare: oltre una transizione più o meno lunga o turbolenta.
È l’unico governatore dem a nord dell’Appennino: ovviamente competitivo con il centrodestra maggioritario in tutta la Pianura Padana, ma non in termini ideologici o di “superiorità morale”, tanto meno di contrapposizione populismo/sovranismo. Bonaccini, soprattutto, appare l’esatto contrario del Pd romanesco e ministeriale incarnato da governatore laziale Zingaretti: per la cui permanenza dicono di mobilitarsi oggi le “sardine” Bologna-centriche. L’ex funzionario Ds “di governo” in Emilia appare agli antipodi anche del professionismo d’apparato incarnato da Goffredo Bettini a Roma. Già nel gennaio 2020 Bonaccini non sapeva che farsene di un M5S irrilevante al Nord: ma è lo stesso partito con cui Bettini vorrebbe consolidare un’alleanza strategica in vista del prossimo voto politico. Il governatore emiliano – presidente della Conferenza delle Regioni – durante l’emergenza sanitaria si è trovato spesso in sintonia con il collega leghista veneto Luca Zaia contro le posizioni del Premier Giuseppe Conte: ma è su Conte “federatore” di Pd e M5S e ri-candidato premier “progressista” che punterà prevedibilmente Zingaretti nella resa dei conti dell’assemblea Pd del prossimo fine settimana.
Bonaccini – come anche il sindaco di Milano, Beppe Sala – non è mai stato davvero di casa nella “maggioranza Orsola”: battezzata così da Prodi per lanciare il ribaltone dell’agosto del 2019 e il rientro del Pd nelle stanze dei bottoni. Un’operazione “di palazzo”, anzi: di palazzi europei più che italiani. È stato Prodi – eminenza grigia del Ppe europeo – a propiziare il “ribaltone” italiano a Strasburgo prima che a Roma: con M5S che ha appoggiato la “commissione von der Leyen” mentre la Lega (vincitrice all’euro-voto in Italia) è rimasta all’opposizione. È stato Prodi a rassicurare Angela Merkel – “cancelliera d’Europa” e leader Ppe – sull’opportunità di tutte le mosse di quell’estate convulsa: non solo della scommessa sull’affidabilità del Conte-2 in Italia, ma anche della nomina del Pd italiano David Sassoli alla presidenza dell’europarlamento (ed è singolare che proprio Sassoli sia rimasto in virtuale silenzio sia sulla caduta di Conte, sia su quella di Zingaretti).
Fermare la Lega in Italia è sembrato valere la candela – per Merkel – di un tradimento multiplo sul piano politico-istituzionale. I Capi di Stato e di Governo dell’Unione avevano concordato per il rinnovo del 2019 un passo indietro dai loro quarantennali “pieni poteri” nella formazione dell’esecutivo di Bruxelles. Il Presidente della Commissione avrebbe dovuto cominciare a essere scelto democraticamente dagli elettori europei e per questo era stato definito il meccanismo degli spitzenkandidaten. Il “candidato di punta” per il Ppe era Weber, leader della Csu, gemella bavarese della Cdu. Nel maggio 2019 il Ppe è rimasto il primo partito europeo, accusando però un netto arretramento – come del resto il Pse – di fronte all’avanzata delle forze sovraniste e dei Verdi. Durante la cruciale maratona di inizio luglio a Bruxelles, il criterio dei “candidati di punta” e il nome di Weber sono caduti subito: non da ultimo perché i premier Ppe dell’Europa orientale (primo fra tutti l’ungherese Viktor Orban) si sono rivoltati contro Merkel, sempre più critica verso la presunta mutazione in “democratura” di Ungheria e Polonia. La candidatura von der Leyen (ministro Cdu in carica a Berlino) ha comportato per la cancelliera altri costi immediati: il nome è stato fatto dal presidente francese Emmanuel Macron e Merkel ha dovuto astenersi in Europa sul nome della “sua” ministra, sgraditissima in patria a Spd, partner della pericolante coalizione di governo.
Oggi Weber si affaccia – con grande evidenza – su un grande quotidiano italiano per elogiare le scosse impresse da Draghi: archiviatore del Conte-2 a Roma (attraverso una maggioranza di unità nazionale che ha reincluso la Lega) e critico sulla gestione della crisi-Covid da parte della connazionale e collega di partito di Weber. Non siamo che a marzo di un 2021 in cui tutto può succedere e molto sicuramente accadrà. Come minimo, Weber è candidato a subentrare a Sassoli nella rotazione di metà mandato tuttora prevista a Strasburgo. Ma manca ancora qualsiasi punto fermo sul percorso elettorale che condurrà la Germania in settembre a decidere il dopo-Merkel. E da lì parecchio potrebbe cambiare anche nella governance Ue: dove oggi Draghi sembra già “co-chairman” assieme a Macron, soprattutto nel riallacciare i fili con gli Usa di Joe Biden.
Nel frattempo, sullo stesso column del Messaggero nel quale nell’agosto 2019 aveva chiamato in Italia il “governo Orsola”, ieri Prodi non ha potuto che ammettere: “Le sorti dell’economia dipendono da un siero”. Siero ed economia: per un anno né Conte, né von der Leyen – creature anche di Prodi – hanno cavato un solo ragno dall’immenso buco nero della pandemia. E oggi il primo è stato spazzato via e la seconda è virtualmente in bilico.
A Roma, intanto, è possibile che le “sardine” stiano in realtà inscenando una delle prime manifestazioni elettorali per le elezioni comunali di ottobre. In vista delle quali Zingaretti esclude ogni suo impegno ma con la stessa determinazione con cui mette sul tavolo le dimissioni da leader Pd. Ma lo stesso Conte – in cerca di una “prima volta” da eletto a qualcosa – non ha mai smentito del tutto un suo interesse. Idem l’ex ministro-Orsola dell’Economia, Roberto Gualtieri. E, non ultimo, Sassoli.