Ha già provveduto Antonio Polito sul Corriere della Sera a sintetizzare un giudizio politico scettico – cosa ben diversa da ogni legittima simpatia etico-culturale – sul nascente “movimento delle sardine”. Non è facile immaginare che una mobilitazione spontanea – “di piazza”, “giovanile” – possa inserirsi nelle dinamiche di una democrazia come quella italiana: tanto più se la scintilla rimane l’opposizione pura e semplice a una forza politica già all’opposizione. Tanto più se i leader delle sardine e il loro “brodo d’allevamento” non sembrano del tutto estranei alle forze politiche che hanno “ribaltato” la vecchia maggioranza di governo, ma si stanno immediatamente dimostrando unfit a risolvere i nodi reali della crisi italiana.
Il mantra delle sardine – “Conta solo fermare Salvini” – sembra del resto perfettamente ricalcato sull’elementare “contratto” che lega M5s, Pd, Iv e Leu. Dalla piazza delle sardine – esattamente come dai vertici di maggioranza – non emerge mai nulla di puntuale e affermativo su nulla: crescita e occupazione, politica fiscale e industriale, gestione dei flussi migratori, sviluppo delle autonomie, riforma della giustizia, rapporti con la Ue, collocazione geo-politica fra Usa e Cina. Al massimo – come ha denunciato l’emiliano Romano Prodi, leader storico del Pd – il partito guidato da Nicola Zingaretti sembra sensibile a una generica priorità per i diritti civili di alcune minoranze. Mentre dalla maggioranza “anti-Salvini” – a trazione M5s – non sembra giungere altro che il tentativo di affannosa resurrezione di uno Stato assistenzialista e imprenditore.
Comunque la vedano i tifosi delle sardine, Bologna non sembra il Cairo della primavera araba di otto anni fa (peraltro fallita), né Hong Kong o Barcellona oggi e neppure Parigi il sabato pomeriggio da un anno. Nemmeno San Venceslao durante la primavera di Praga. In ognuna di quelle piazze gremite il gioco socio-politico era – o resta – il drammatico contrario di un gioco. Valori e interessi in campo erano e sono ultra-reali e il confronto è puntualmente intriso di “sangue e melma”: non si risolve in un happy hour, né in un “girotondo” morettiano del sabato mattina, perfettamente inserito nei ritmi del weekend.
Modena non gronda sangue giovanile come Plaza de Mayo e non è neppure arancione come la Maidan di Kiev, dove solo le inquadrature fisse della Cnn o di webcam gestite chissà da chi distinguevano sempre a colpo sicuro i “buoni” dai “cattivi”. Nell’Italia del 2019 i leader delle sardine non sono stati incarcerati come i legittimi governanti catalani: sono stati subito contesi dai talkshow televisivi. Sono già influencer di buon avvenire, anche se è arduo prevedere che riusciranno a ripercorrere le orme di Beppe Grillo, strappandogli i voti pentastellati.
A Bologna, certamente, abita ancora qualche reduce e nostalgico della primavera del ’77: quando i nouveax philosophes francesi calavano a Piazza Maggiore per godersi una specie di titolo di coda del Sessantotto parigino. Poco dopo sarebbero arrivate una bomba assassina neo-fascista ma anche l’escalation terroristica delle Brigate Rosse. Quell’Italia – quella Bologna – seppero resistere a tutte le pressioni: e premiarono alla fine una grande forza parlamentare (il Pci) e il profilo del suo leader (Enrico Berlinguer) con un sorpasso elettorale sulla Dc maturato alle europee del 1984.
L’esito del recente voto europeo – che ha messo in allarme “democratico” anche le “sardine” – è stato un ben diverso sorpasso: ha visto protagonista, nell’occasione, la Lega (33% in Emilia -Romagna, in linea con il risultato nazionale) contro il 31% del Pd (22% nel Paese). Il Pci intanto non c’è più da un pezzo, così come nel centro-sinistra sembrano scomparsi i leader che – quando chiudevano la Festa nazionale dell’Unità, spesso in Emilia-Romagna – radunavano in piazza centinaia di migliaia di giovani e meno giovani. E li tenevano in piedi per un paio d’ore mentre parlavano dei grandi temi politici del Paese.
In Emilia-Romagna, il prossimo 26 gennaio, è in programma il voto regionale. Dall’avvio del decentramento amministrativo, nel 1970, la giunta regionale è sempre stata appannaggio della sinistra o del centro-sinistra. Contro chi riempiono le piazze le “sardine”? Contro il fatto che dopo 49 anni la Regione sia per la prima volta contendibile e possibile oggetto di un’alternanza che in democrazia dovrebbe essere fisiologica? Contro il fatto che a favore di presunti “barbari” – e a sfavore di chi sta amministrando da mezzo secolo – si è orientato un terzo degli elettori di una Regione capace del secondo Pil pro-capite italiano? Perché le sardine non fanno trasparente e democratica campagna elettorale a sostegno di Stefano Bonaccini contro Lucia Borgonzoni? Imiterebbero la senatrice a vita Liliana Segre, che ha preso la parola in Senato annunciando il suo voto di fiducia al governo Conte-2 e il suo plauso all’estromissione della Lega.
Potrebbe forse innestarsi qui la riflessione sociologica – tutt’altro che “politicamente corretta” – proposta da Luca Ricolfi nel suo ultimo saggio La società signorile di massa. La crisi italiana – con il suo paradossale mix di opulenza e stagnazione – per Ricolfi sembra poggiare su tre pilastri: “la ricchezza accumulata dai padri, la distruzione di scuola e università e un’infrastruttura di stampo para-schiavistico”. Ci sarà probabilmente tempo per riparlarne: il “caso sardine” – come il “caso Greta”, il “caso Segre” e altri – promette di occupare i grandi media almeno per qualche settimana. Come e da chi, nel frattempo, è governato (o non governato) il Paese è questione che può attendere. Anche fino al marzo 2023, anzi: anche fino a qualche mese dopo, come ha deciso la giunta uscente dell’Emilia-Romagna per impedire il voto alla scadenza regolare di fine novembre. Chissà se le “sardine” avranno nel frattempo ripassato bene l’educazione civica.