Caro direttore,

la giornata di ieri è stata ricca di fatti significativi per l’emergenza Covid in Italia: sia sul versante sanitario che su quello politico.

Gli eventi da registrare con la matita blu appaiono almeno tre:

– la desecretazione dei verbali del Comitato tecnico-scientifico sulla base dei quali il premier Giuseppe Conte ha deciso il lockdown del Paese a partire dall’8 marzo, nonostante già cinque giorni prima gli esperti raccomandassero con urgenza almeno una zona rossa in Valseriana;



– l’impennata dei nuovi contagi rilevati (557) con un’esplosione in Veneto (183) dovuta principalmente alla registrazione di un’estesa epidemia all’interno del centro di accoglienza per immigrati a Treviso (dove sono ora positivi una decina di operatori e 233 ospiti su 285 giunti in prevalenza attraverso il canale di Sicilia dall’Africa subsahariana);



– l’annuncio del premier Giuseppe Conte del nuovo impiego dei suoi poteri speciali in proroga per estendere alcune misure restrittive fino al 7 settembre.

Un quarto elemento di cronaca rilevante appare l’escalation informativa da parte del Miur sul piano di riapertura delle scuole in settembre.

Sembrano anzitutto tutti input meritevoli di un dibattito politico–mediatico che invece è pressoché assente (quasi nessun media ha dato rilievo al “fattore Veneto” nel boom dei contagi).

Gli interrogativi appaiono molti e pressanti. Il principale è sicuramente: perché il premier ha deciso in autonomia (come lui stesso avrebbe dichiarato ai Pm di Bergamo) di non chiudere Nembro e Alzano, con un’epidemia già più grave che a Codogno, con raccomandazioni nette da parte degli scienziati e le forze dell’ordine già sul campo? È una domanda cui Conte dovrebbe sentirsi obbligato a rispondere davanti al Parlamento: che peraltro dovrebbe sentirsi obbligato a chiederglielo subito. Ma le Camere hanno optato alla fine per due settimane di ferie e d’altronde i presidenti di Camera e Senato sono espressi rispettivamente da un leader M5s (maggioranza) e da FI (oggi in zona grigia di avvicinamento alla maggioranza). Né il Quirinale ritiene per ora evidentemente opportuno accelerare un chiarimento dell’operato del governo in chiave di trasparenza democratica.



In questa cornice gli osservatori sono spinti e autorizzati a muoversi sul piano delle congetture. Perché Conte ha inizialmente “negato” l’epidemia nel Nord Italia, come hanno peraltro fatto altri leader mondiali (il britannico Boris Johnson, l’americano Donald Trump e soprattutto il brasiliano Jair Bolsonaro)? È lecito ipotizzare che abbia tentato fino all’ultimo di evitare all’Italia l’etichetta di “primo Paese contagiato”: non va dimenticato che per almeno due settimane (quelle oggi “incriminate”) l’Italia è apparsa davvero l’unico Paese colpito dal virus proveniente dalla Cina. È peraltro su questo snodo delicatissimo che è lecito arguire altri motivi di esitazione da parte di Palazzo Chigi.

Il primo è stato di ordine diplomatico: il timore di urtare la Cina che – com’è noto – ha esercitato pressioni fortissime (anzitutto in Europa) per minimizzare il potenziale pandemico di Wuhan. È su questo fronte (essenzialmente di natura economica) che l’Italia ha tentennato nel sospendere i collegamenti aerei con la Cina, non vigilando mai sul traffico indiretto (ad esempio quello dalla Germania, probabile “ultimo miglio” del Covid arrivato in Lombardia).

Ma sulla “sindrome cinese” da cui il governo Conte 2 è nato strutturalmente affetto sia in campo M5s che Pd, non sembra essere mancato un aspetto più squisitamente politico: la polemica innescata dai governatori leghisti delle Regioni del Nord sull’opportunità di quarantene per i cinesi in rientro in Italia. Perché Conte avrebbe dovuto assecondare il pressing del suo ex alleato divenuto principale forza d’opposizione? E perché un premier di un “governo del centrosud” avrebbe dovuto preoccuparsi di un’area del Paese “antagonista” sul piano politico–economico? Non è un caso che fin da febbraio Conte sia raramente salito a Milano, Bergamo e Brescia, Torino, Bologna o Venezia. Non è mai stata la sua Italia, neppure quando il virus mieteva mille morti al giorno.

Il quesito valido per marzo rimbalza puntuale ad agosto in provincia di Treviso: il collegio elettorale di base del governatore Luca Zaia. Uscito vincitore – forse unico al momento – dalla “guerra del Covid” e ora candidato a una riconferma plebiscitaria al voto regionale di settembre. È un fatto, fino a prova contraria statistico: ma il più importante focolaio della “fase 2” si è comunque acceso nel cuore del Veneto, in campagna elettorale. E si tratta di un focolaio indotto artificialmente dal trasferimento forzato di migranti autorizzati allo sbarco e allo smistamento nazionale dal governo, in disapplicazione dei decreti sicurezza tuttora in vigore.

Sono dettagli che, tuttavia, un sistema–media ormai largamente aderente all’ideologia politically correct evita sistematicamente di fornire: anche a costo di tradire la propria missione informativa. Ma restano comunque fatti, non opinioni. Così come resta un fatto che mentre dalle spiagge siciliane arrivano centinaia di migranti positivi al Covid, una stessa città – uno stesso Paese – è impegnata allo spasimo per evitare una seconda, temutissima ondata di contagio: soprattutto quando, fra un mese, milioni di insegnanti e studenti proveranno a far ripartire regolarmente l’attività scolastica.

Su questo sfondo può perfino suonare giustificato che il premier rialzi la guardia e riprenda a far funzionare la sua fabbrica di Dpcm: ma non senza alimentare nuovi sospetti di gestire l’emergenza Covid non come un capo di governo, ma come un leader politico sempre più anomalo perché fuori dal sistema di “checks and balances” previsti dalla Costituzione.