La febbre inflazionistica in Europa non accenna a diminuire, persiste a si avvicina alla soglia (non solo psicologica) delle due cifre. Dove mostra qualche incertezza – ad esempio in Francia – è il probabile sintomo di una patologia più grave: la stagflazione, cioè il mix venefico di aumento dei prezzi e decelerazione della domanda, prodromo alla recessione.
Dopo un anno dalle prime scintille sul mercato del gas, i governi (democratici) dell’Occidente insistono nel considerare l’inflazione un male necessario – ed evidentemente sopportabile e prevedibilmente curabile – per conseguire un supposto bene comune per la civiltà euramericana in campo in Ucraina contro la Russia autocratica di Vladimir Putin. Esattamente come la minaccia nucleare, la Ue dovrà quindi far fronte all’inflazione poiché (lo ha notato ultimamente Henry Kissinger) una guerra civile in Ucraina – non la prima – è giudicata dagli Usa una “terza guerra mondiale in nuce” che la Russia non può e non deve vincere.
E se non è possibile agire sulle cause della fiammata, è inevitabile limitarsi a gestire gli effetti sintomatici: lasciando ai banchieri centrali – supposti “piloti automatici” indipendenti dalla politica – di manovrare la leva dei tassi. Nei fatti, il preteso intervento tecnico, macro-economico, ha premesse ed effetti fortemente politici. La Fed di Jerome Powell è pressata dalla Casa Bianca di Joe Biden perché fra due mesi negli Usa sono in programma le cruciali elezioni politiche di “midterm”.
Il rialzo dei tassi avrà certamente qualche impatto di breve periodo, utile a convincere alcuni elettori che l’amministrazione è prontamente intervenuta a spegnere l’incendio inflazionistico, che però prima non c’era e che – per buona parte – ha acceso la Casa Bianca stessa. Nel contempo il rimbalzo dei tassi da un “livello zero”, che dura praticamente dal collasso finanziario del 2008, rischia di cancellare imprese soprattutto di piccola dimensione (già falcidiate dal Covid) e posti di lavoro collegati. È un gioco a somma zero o negativa per i “dem” al potere a Washington, non per l’establishment bancario: per il quale il “zero rate environment” non è naturale. Viceversa, l’intera Corporate America festeggerà certamente il ritorno – non solo psicologico – di “re dollaro” nelle ragioni di scambio con l’euro.
Un po’ di inflazione – per definizione – ha dei beneficiari ben individuabili: i debitori, di qualunque natura. Ma in particolare i grandi debitori sovrani: gli Stati che vedono diluirsi le loro passività nominali verso grandezze che possono essere trainate da progressi reali (Pil); per non parlare del “fiscal drag”, la dinamica di aumento dei gettiti fiscali nominali a parità di aliquote in caso di spirale dei redditi monetari.
Per i governi l’inflazione è un serio problema politico, per gli Stati – come per le imprese indebitate ma non insolventi – può essere un tonico. Come può esserlo per un “super-Stato” come la Ue, che si è indebitata per 750 miliardi di euro per il Recovery Plan.
La rincorsa dei tassi da parte della Bce si profila intanto ritardata, benché la Germania stia premendo per un “passo lungo” di 75 centesimi, pari al primo deciso dalla Fed. Nell’approccio della Bundesbank c’è sempre sicuramente la storica idiosincrasia tedesca verso un’inflazione sempre sinonimo di anni 30 del secolo scorso. Ma c’è dell’altro. c’è la necessità di ridare ossigeno al sistema bancario-assicurativo del maggior paese europeo, in apnea soprattutto nel comparto della previdenza privata.
E poi in un mondo “a tassi non più zero”, di “business as usual”, di “post pandemic new normal” verrebbero ripristinate le distanze fra nord e sud del continente, soprattutto nella fase di delicata riscrittura delle regole Ue.
Non tutta l’inflazione è “cattiva”. Per alcuni player può essere perfino “buona”.
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