Nelle pieghe della crisi energetica e delle bollette non pagate è racchiuso anche il futuro della Rai e del suo conto economico. Da qualche anno, con l’inserimento della spesa in “bolletta”, il canone è diventata una fonte di ricavi ipersicura; il quadro potrebbe cambiare perché un numero crescente di utenti ha difficoltà a pagare le utenze e una parte si rifiuta bruciando i bollettini in piazza. La questione non è banale per la televisione di Stato perché i ricavi da canone, circa 1,8 miliardi di euro nel 2021, rappresentano due terzi del totale e la pubblicità rappresenta solo il 25% del fatturato.
La struttura di costi del gruppo televisivo è estremamente rigida perché il costo del personale, oltre il miliardo di euro nel 2021, è pari al 50% di tutti i costi; per il principale concorrente italiano del gruppo Rai, Mediaset, i costi del personale invece rappresentano solo il 25% del totale. Nel caso della Rai, basterebbe una riduzione del 10% degli incassi da canone per imporre un taglio dei costi, escluso il personale, del 20%; l’unica possibilità per evitare di ricorrere alla fiscalità generale sarebbe quella di ridurre drasticamente i diritti sportivi e in generale le spese per la programmazione. Decrementi del canone superiori al 15% presenterebbero invece immediatamente la necessità di un contributo statale aggiuntivo.
Rimane la stranezza di un servizio televisivo di Stato immune da qualsiasi crisi, recessione o depressione che pesa come costo fisso su famiglie che cominciano a contare i minuti della doccia e che si apprestano a tenere al minimo i termosifoni. Il quadro, al di là delle intenzioni che possono essere lodevoli, non ci sembra presenti alcuna pressione a ridurre i costi. Un’entrata fissa a prescindere da qualsiasi contesto economico avrebbe questo effetto praticamente su chiunque.
La vicenda, ovviamente, è politica. Non ci si può aspettare uno scroscio di applausi se si continua a imporre in bolletta il pagamento della televisione di Stato in uno scenario in cui molte famiglie convivono con l’incubo di non riuscire a pagare le utenze e di rimanere senza luce. Il ricorso alla fiscalità generale, sempre possibile, ha il merito di nascondere il problema. Rimane al fondo la quesitone di come utilizzare al meglio l’enorme spesa pubblica perché da settembre molte imprese hanno chiuso causa prezzi energetici; significa che il gettito diminuirà sensibilmente.
Un Paese sano e che vuole sopravvivere dovrebbe spendere per risolvere un problema, la crisi energetica, che per quanto enorme non è irrisolvibile con le idee giuste e i soldi. Il Reddito di cittadinanza vale in un anno il costo di mezza centrale nucleare, che però non produrrà un mega prima di 20 anni, o una campagna di trivellazioni che vale quanto Eni investe in due anni in esplorazione in tutto il mondo. Pensare di uscire da questa situazione senza toccare niente sperando che, non si sa come, il sistema industriale rinasca per magia non è una soluzione. Lasciare i sistemi “automatici” di spesa pubblica invariati in attesa che l’economia si riprenda non è più una “soluzione”. Il canone rai, inserito in bolletta alla viglia dei razionamenti, è emblematico; prima o poi qualcuno si chiederà che senso abbia avuto risparmiare per guardare una televisione rimasta senza corrente.
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