Quella appena conclusa è stata una settimana in cui i dati sull’inflazione europea hanno smentito le ipotesi di rallentamento della salita dei prezzi o addirittura di diminuzione. Si apre, anzi, uno scenario di seconda ondata. Tre giorni fa il ministro dell’Agricoltura italiano Lollobrigida ha dichiarato che “noi quest’anno lavoreremo per far entrare legalmente quasi 500.000 immigrati”. Le due notizie, apparentemente scollegate, in realtà possono essere lette insieme.



In queste settimane viene meno l’ultima “narrazione” sull’inflazione: quella secondo la quale prima è stata transitoria, poi ha raggiunto il picco oggi diventa, invece, la nuova realtà di medio lungo periodo, a meno di ipotizzare recessioni paurose. Se anche una tale recessione arrivasse, nello schema attuale si tornerebbe al punto di partenza: tassi bassi e nuova moneta. L’inflazione ha diverse cause, ma quella iniziale affonda nelle politiche monetarie e fiscali messe in atto dalle banche centrali e dai Governi nel 2020 e nel 2021. In questi due anni le banche centrali “hanno stampato” moneta come mai accaduto e permesso agli Stati di andare in deficit per importi record. Per mesi e mesi le attività sono rimaste chiuse e in moltissimi non si sono accorti di niente. Anzi, siccome non si poteva consumare (pensiamo ai viaggi) si sono accumulati più risparmi. E così dopo sei o dodici mesi di chiusura in molti si sono ritrovati più ricchi di prima. Ma l’inflazione apparsa improvvisamente alla fine del 2021 non è altro che il conto dilazionato dei lockdown.



Aggiungiamo che in quegli stessi anni le imprese hanno colto l’occasione per ridurre il personale e chi poteva ha scelto la pensione. Il risultato è quello a cui assistiamo oggi, con un mercato del lavoro, in alcuni Paesi e in alcuni settori, effervescente. L’ultimo pezzo del quadro è la guerra commerciale con la Russia e con la Cina che è, ovviamente, inflattiva perché dalla Russia arrivava gas a basso prezzo e dalla Cina prodotti economici.

L’inflazione non è un incidente di percorso. Non si tornerà a un nuovo ciclo di sostanziale deflazione tra qualche mese o tra qualche trimestre. L’inflazione, viste le cause, è strutturale e tale rimarrà per un lungo periodo di tempo. Non solo. Più passa il tempo, pensiamo all’inflazione alimentare, più diventa un problema sociale.



La soluzione per uscire da questo problema esiste e passa da forniture energetiche economiche e sicure e dalla libera impresa. È la soluzione degli Stati Uniti, che oggi si trovano con il prezzo del gas ai minimi degli ultimi dieci anni e che offrono incentivi fiscali imponenti per attrarre le imprese e convincerle ad aprire nuove fabbriche. È la soluzione dei Paesi in via di sviluppo. Questa implica due effetti. Il primo è una dinamica dei redditi da lavoro positiva e in grado di controbilanciare l’inflazione. Il secondo è che alla lunga, con la crescita della produzione, i prezzi si stabilizzano e smettono di crescere.

Ma l’Europa si preclude questa soluzione, perché decide di passare, in tempi record per giunta, a fonti energetiche costose e inaffidabili e perché seppellisce imprenditori e imprese di tasse, pensiamo a quella sulla CO2, e di regole come quella sui motori termici da eliminare in poco più di dieci anni; senza nemmeno lasciare all’industria automotive la scelta su come ridurre le emissioni, per esempio via biocarburanti o motori più efficienti.

L’inflazione europea è cattiva e irrisolvibile e più dura nel tempo, più scava solchi nella coesione sociale. Non c’è una soluzione al problema dell’inflazione dentro lo schema che ha scelto l’Europa. Per questo l’aumento dei salari fa paura in Europa e in Italia. Molta più paura che in altre regioni.

Il dubbio è che far entrare mezzo milioni di immigrati appaia come una “soluzione” economica irresistibile per evitare che la crescita dei salari peggiori l’inflazione. In questo modo non si è costretti a mettere in discussione la strategia europea, né il moloch della rivoluzione green, né ci si deve confrontare con la sfida di riallacciare e stringere rapporti con i Paesi ricchi di materie prime.

Tutti contenti tranne le famiglie italiane. Incluse quelle, ça va sans dire, arrivate una generazione fa dalle coste del Nord Africa, dall’Africa sub-sahariana o da qualsiasi altra parte del mondo.

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