Il primo presidente effettivo della Corte costituzionale, Gaetano Azzariti, era stato un tecnocrate fascista di primo livello. Ras del ministero della Giustizia per l’intero ventennio, aveva presieduto perfino una commissione speciale per la razza. Questo non gli impedì di essere scelto come fondatore sostanziale dell’organo costituzionale che allineava la Repubblica democratica agli standard occidentali. Il vigile dell’applicazione progressiva di una Carta che – nelle Disposizioni transitorie – vietava la ricostituzione del Partito nazionale fascista.
Azzariti fu nominato alla Consulta dal presidente Giovanni Gronchi, appena eletto: primo democristiano al Quirinale, leader della sinistra del partito, già sindacalista cattolico e fondatore del Partito Popolare, cacciato dalla Camera dalle leggi liberticide del fascismo. Il giurista napoletano posto alla guida della Consulta – dopo l’esordio simbolico di Enrico De Nicola – aveva d’altronde già fatto a tempo a collaborare con il ministro della Giustizia Palmiro Togliatti (che lo aveva conosciuto durante i governi del Sud del 1944-45) nel difficilissimo dopoguerra delle epurazioni e delle amnistie. Azzariti condusse la Corte per quattro lunghi anni di rodaggio: era ancora in carica il giorno della sua morte, nell’aprile 1961. Di lui si ricorda la relazione a una prima sentenza strategica per lo stato di diritto nel Paese: quella che legittimava la Consulta a pronunciarsi anche sulle leggi entrate in vigore prima del suo insediamento, nel 1955.
Il nome di Azzariti è stato velocemente rimosso dalla memoria di una Corte costituzionale entrata in un mito progressivo: quello più ampio e avvolgente della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Pure la vicenda odierna della nomina parlamentare del giurista Francesco Saverio Marini, risente del pregiudizio implicito del mito resistenziale sul ruolo della Consulta nell’architettura istituzionale italiana. Il fatto che Marini fosse in cattedra di diritto pubblico a Roma a soli 29 anni, che il padre Annibale sia stato lui stesso in passato presidente della Consulta, sembra contare poco o nulla. Contro di lui gioca invece che venga indicato da una forza politica da sempre etichettata come “post-fascista” e che sia stato il progettista della riforma del premierato, a suo volte etichettata come “eversiva e golpista”, “attacco frontale alla Costituzione più bella del mondo”. Ed è su questa piega che varrebbe la pena di aprire un dibattito politico-culturale adeguato.
Non diversamente da altre verità scomode di questo periodo – la più clamorosa è la conferma che l’antisemitismo/antisionismo in Italia è alimentato da un odio “rosso” e non “nero” – la stessa Consulta appare da molti anni prigioniera di un ruolo, quello di essere “contropotere di fatto” a quello del parlamento e del governo; a maggior ragione quando forze politiche come M5s, Lega e FdI hanno riscosso successi elettorali che hanno aperto loro le stanze del potere (costituzionale). In questo spazio abbiamo già sottolineato come sia divenuta ormai sistematica la prassi mediatica di invocare la Consulta – anzi: sollecitarne intervento “risanatore” – ogni qualvolta un governo o un parlamento, accusato tout court di essere “non democratico”, vara provvedimenti sgraditi a un centrosinistra divenuto minoranza d’opposizione (e non era maggioranza come tale neppure nel decennio della sinistra tecnocratica, fra il 2011 e il 2022).
È intanto un fatto che la Corte Costituzionale abbia assunto via via il ruolo di vero “parlamento/governo del Presidente”: di un Quirinale in cui da 25 anni siedono esponenti della sinistra cattolica, laica e post-marxista. Il progetto di premierato possiede sicuramente una forte carica “innovativa”: discutibile come tutti le iniziative di riforme (il Sussidiario ne segue regolarmente gli sviluppi e il confronto politico-culturale). È però un fatto che oggi la Consulta è per due terzi controllata dal Quirinale, attraverso le nomine proprie e quella di diretta espressione di diverse magistrature dello Stato, facenti capo al Csm, a sua volta presieduto dal Presidente della Repubblica. Una magistratura che – soprattutto nell’ultimo trentennio – è stata protagonista dello stato di diritto “materiale” in Italia, come lo è stata la Consulta.
Quella del governo Meloni sulla nomina parlamentare di Marini può presentare certamente aspetti di impuntatura politica, ma è stata preceduta da almeno tre decenni in cui il ruolo istituzionale della Corte – e quindi la sua composizione prima ancora della sua operatività – non è sempre stato esente dal sospetto di condurre una “resistenza” ad alcune forze politiche, e a favore invece di quelle forze che – Oltralpe – il presidente francese Macron ha ultimamente chiamato a raccolta in un “fronte repubblicano”: che però lui stesso ha riconosciuto essere un puro artificio narrativo, affidando poi il nuovo governo a un esponente gollista, Michel Barnier, che si reggerà con l’appoggio condizionato della destra lepenista.
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