Delle prime pagine domenicali dei tre quotidiani italiani più diffusi, solo una (su una testata sintonica con la maggioranza di destra-centro) ha riservato i titoli principali agli incidenti antagonisti di Bologna e a quelli antisemiti di Milano, con una ripresa importante degli attacchi antiebraici di Amsterdam. Le altre due cover – su giornali più vicini all’opposizione di centrosinistra – non avevano invece una riga sulle piazze italiane e offrivano seguiti minori sul caso olandese in sé.
Ha colpito – cinque giorni dopo le presidenziali Usa e una settimana prima delle regionali in Emilia-Romagna – che la sconfitta dem Oltreatlantico sia cominciata a maturare sulla stampa, ben prima che Kamala Harris diventasse la candidata di scorta di Joe Biden. I dem hanno iniziato a perdere quando le testate ammiraglie del progressismo Usa – come il New York Times, il Washington Post e il Los Angeles Times – hanno rinunciato a raccontare e commentare con professionalità giornalistica non solo la fiammata inflazionistica o l’aggravarsi della crisi migratoria nell’arco del quadriennio Biden, ma anche una cronaca complessa e spinosa come le proteste anti-israeliane nei campus universitari, storici santuari della cultura politica “leftist”. Su questo fronte gli stessi giornalisti che si sono poi stracciati le vesti di fronte al rifiuto di Jeff Bezos di schierare il Post a fianco di Harris, hanno registrato con toni notarili la repressione poliziesca dei movimenti pro-pal, avvenuta con l’assenso più o meno tacito della Casa Bianca dem, già in affannoso inseguimento del trumpismo ri-emergente. Hanno così fatto calare un negazionismo sempre più opaco sulla più scottante questione-interfaccia fra campagna elettorale interna e crisi geopolitica.
La realtà con cui i giornalisti progressisti – prima ancora che i politici dem – hanno rifiutato di misurarsi è stata la doppia lacerazione interna alla sinistra americana e alla comunità ebraica su Israele e la guerra di Gaza. Gli studenti e talora i professori di Harvard e della Columbia – tradizionalmente vicini alle ali liberal e radical del partito democratico – hanno contestato da subito la reazione del Governo Netanyahu al 7 ottobre; mentre l’Amministrazione dem ha invece continuato a fornire a Gerusalemme fino all’ultima bomba per uccidere non solo i leader e le truppe di Hamas ed Hezbollah, ma anche 40mila civili palestinesi senza patria da 76 anni.
Intanto, dei due milioni e mezzo di israeliti residenti negli States, tre quarti si preparavano – come in passato – a votare il 5 novembre la candidata dem, ma un quarto ha consolidato il suo appoggio “ad personam” a Donald Trump, alleato di ferro del premier estremista israeliano. Ed è fra questi ultimi che si potevano contare i maggiori donatori nelle grandi università private (e anche quelli con maggiore influenza nei media e nella finanza donatrice della politica): quelli cioè che hanno decretato da subito che alla difesa degli interessi di Israele dovesse essere sacrificata la libertà di pensiero, parola, ricerca e insegnamento nei campus americani.
È quindi accaduto che Harris sia stata battuta anche perché un’intera classe dirigente e un’intera intellighenzia mediatica non hanno saputo o voluto aprire gli occhi su un nuovo antisemitismo: alimentato dalle sinistre giovanili, peraltro contro un asse Netanyahu-Trump compattamente appoggiato dall’establishment ebraico americano. Una realtà opposta alla narrazione standard sul “nazifascismo” congenito al razzismo anti-ebraico e su una comunità israelita americana compatta contro i “fascisti” Bibi & Donald. Analogamente, la “cultura dell’odio” è sempre stata per mantra estranea e antagonista ai circuiti universitari e mediatici del politically correct. Discutere una realtà nuova con gli strumenti politico-mediatici propri di una democrazia evoluta come quella americana, non era impossibile: ma avrebbe disturbato una campagna dem sempre più impervia, già avviata a mendicare i like delle celebrità ricche e famose e a lanciare contro l’avversario solo anatemi elementari.
Sabato a Bologna è avvenuto che un corteo di giovani di Casapound (formazione della destra giovanile estrema) abbia attraversato Bologna, capoluogo di una regione che domenica prossima rinnova l’amministrazione. A quanto hanno riferito le cronache, sul corteo hanno puntato gruppi di giovani “antagonisti”, che le forze dell’ordine hanno trattenuto solo al prezzo di scontri violenti e di feriti. Nel silenzio dei giornali progressisti in prima pagina è andato perso anche il commento della leader “dem”, Elly Schlein, cinque anni fa in campagna a Bologna come candidata vicegovernatrice. Schlein ha principalmente lamentato che il corteo di Casapound non sia stato “democraticamente” vietato o costretto a percorsi secondari. Forse a parlare è stata la nostalgia dell’autunno 2019, quando le piazze bolognesi erano occupate solo dalle “sardine” che inneggiavano alla giovane esponente dem e maledicevano “l’odio nero”.
Neppure oggi – di fronte all’aggressione di giovani antagonisti a giovani di destra nella sua città in campagna elettorale – Schlein sembra essere sfiorata dal dubbio che l’odio possa essere anche di altri colori. O che l’agibilità democratica di una grande città italiana non sia proprietà esclusiva dei militanti Pd o della sinistra estrema. E se la leader “dem” fa bene a ricordare la terribile strage del 1980 alla stazione di Bologna, sembra dimenticare che otto anni dopo in Emilia-Romagna furono le Br ad assassinare il preside (cattolico) della facoltà bolognese di Scienze Politiche, Roberto Ruffilli.
Da Schlein – figlia di un politologo americano, israelita e liberal – era giunta nella ore precedenti una ferma condanna per l’aggressione antisemita dei tifosi israeliani ad Amsterdam. È stata debitamente registrata, anche se è parsa aggiungere elementi di ulteriore incertezza su una questione che pare sovrapponibile in Italia a quella descritta sopra per gli Usa. L’incidente di Amsterdam è stato cavalcato da Netanyahu nell’evidente tentativo di sfruttare la nuova “era Trump” per mettere fra parentesi i 13 mesi di guerra a Gaza e in Libano e ripristinare la narrazione storica sul diritto di Israele ad autodifendersi sempre e con qualsiasi mezzo contro ogni atavico odio anti-ebraico. Schlein condivide quest’approccio?
Finora non ha mai chiarito davvero la sua visione geopolitica su nulla: neppure sulla guerra russo-ucraina. Sui riflessi italiani della guerra di Gaza lo scorso febbraio si era d’altronde allineata con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sceso in campo a difendere la libertà di protesta pro-palestinese di studenti e centri sociali a Pisa. Nel frattempo, sabato a Milano le voci di solidarietà agli aggressori antisemiti di Amsterdam si sono levate da cortei riconducibili all’antagonismo di sinistra, non troppo dissimili da quelli di Pisa. Erano anche loro tutelati dall’Italian free speech che non è stato riconosciuto – alla fine neppure dai dem – ai pro-pal negli Usa?
È probabile che il centrosinistra – a differenza dei dem americani – domenica mantenga nelle urne il suo potere a Bologna. Ma sembra difficile che possa riconquistarlo a Roma se non affronta – fra tante questioni – anche quella relativa all’odio antisemita nel suo campo più o meno largo. Per la verità la politica italiana aveva rilevato un’emergenza-odio proprio nell’autunno di cinque anni fa. Ed era stata la sinistra a imporre la “commissione Segre” per studiare il problema e suggerire correttivi. Nel 2024 l’emergenza sembra persistere, mentre dalla commissione (confermata dalla maggioranza di destra-centro) non sono finora giunte né analisi, né progetti di legge. Forse perché definire e combattere l’odio con nuove norme scritte dal Parlamento italiano non è così gradito a una magistratura che su molte vicende politicamente sensibili preferisce calare le sue “interpretazioni” o “disapplicazioni”. O forse perché l’odio – a cominciare da quello contro la memoria della Shoah – non appare più quello narrato finora dai giornali progressisti. Che oggi infatti tacciono.
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