La reazione della Borsa, venerdì, è stata finora la sola allo strappo portato al vertice Generali dalle clamorose dimissioni di Francesco Gaetano Caltagirone da vicepresidente vicario. E la stessa Piazza Affari non è parsa scomporsi più di tanto, anzi: il leggero calo del titolo ha confermato – non senza qualche significato – che i mercati restano scettici sulla prospettiva che a Trieste si prepari una battaglia finale, con scalate e controscalate al listino. Eppure Caltagirone è oggi il secondo azionista del Leone e ha ormai superato l’8% in proprio: ha portato dunque al di sopra del 16% il patto con Leonardo Del Vecchio e Fondazione Crt, in vista del 17% che Mediobanca detiene soltanto in virtù di un precario prestito-titoli. L’assemblea primaverile intanto incombe: con il nodo del contendere riguardante il futuro dell’amministratore delegato Philippe Donnet.
Caltagirone insiste dunque nell'”abbaiare alla luna”? Si vede costretto a mosse plateali ansioso di tirare dalla sua grandi soci incerti come Edizione (Benetton) o De Agostini? Per la verità a ignorare – almeno apparentemente – le sue spallate a Trieste vi è anche l’establishment politico-istituzionale. Ed è un versante su cui forse qualche riflessione merita di essere spesa.
Le Generali non sono più il “sancta sanctorum” di un tempo nello scacchiere finanziario europeo e probabilmente anche italiano: dove però rimangono ancora un “campione nazionale” a cinque stelle, non solo per il prestigio secolare. ma anche per il ruolo di custodia del 10% del debito pubblico italiano. Non è solo per miti e infatuazioni “d’antan” che capitalisti senior come Del Vecchio e Caltagirone stanno tentando di prendere il controllo del gruppo che da cinquant’anni è sotto il patronato di Mediobanca (quella degli scomparsi Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi) e di una certa élite francese. Proprio per questo non è mai accaduto che politica e poteri pubblici si mostrassero disintereressati agli eventi attorno al Leone. Al contrario: una ventina d’anni fa – quando Maranghi “autoscalò” Mediobanca nel dopo-Cuccia con il sostegno francese di Vincent Bolloré e mise in (sua) sicurezza le Generali – fu il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio a ordinare una clamorosa contro-scalata “nazionale” di banche e Fondazioni italiane. Finì con un pareggio-stallo che in fondo dura tuttora, anche se non fu del tutto indolore: Maranghi dovette lasciare piazzetta Cuccia, scomparendo pochi anni dopo. A Trieste si esaurì presto la presidenza “vecchia guardia” di Antoine Bernheim e, dopo la veloce parentesi di Cesare Geronzi, Gabriele Galateri di Genola presidiò lo status quo impersonato nel ruolo di amministratore delegato prima da Mario Greco (oggi a capo del gruppo Zurich) e poi da Donnet, proveniente da Axa.
Da allora le Generali hanno attraversato senza infamia e senza lode gli anni turbolenti successivi al collasso del 2008: non hanno subito colpi pesanti, ma da allora non sono più state protagoniste né in Italia, né fuori. Forse per questo la politica ha preso a non tenere più d’occhio il Leone: che in fondo non ha fatto eccessiva notizia neppure quando Intesa Sanpaolo, nel 2017, tentò di impadronirsene con un’offerta pubblica. Che fin dapprincipio non presentava “chance” di successo in quanto appoggiata su una premessa politica superata: il sostegno del Premier Matteo Renzi, nel frattempo bruscamente detronizzato dal referendum sulle riforme istituzionali.
Oggi a palazzo Chigi c’è Mario Draghi: ex Presidente della Bce, ex Governatore della Banca d’Italia (quando la vigilanza assicurativa dell’Ivass vi fu accorpata), ex top manager della Goldman Sachs, ex Direttore generale del Tesoro nella stagione cruciale delle privatizzazioni (anche delle Bin di Mediobanca e dell’Ina). Il Premier sembra dunque la sintesi di tutti i “poteri” formali e sostanziali con potenziale voce in capitolo sul destino delle Generali, ma per ora tace (e stanno in silenzio “a cascata” il Mef di Daniele Franco e le authority Bankitalia/Ivass e Consob). E un riserbo dietro cui si può scorgere più di una motivazione.
La prima è sicuramente il credo di banchiere liberista che contraddistingue da sempre Draghi. Un’ottica che può forse ricomprendere, nel terzo decennio del ventunesimo secolo, il salvataggio pubblico di Mps e un ruolo importante per la Cassa depositi e prestiti nell’era Pnrr, ma non forme di restaurazione dell’ingerenza pubblica nella finanza di mercato. Una seconda cautela sembra avere tonalità più politiche e concerne l’insidiosa categoria dell'”italianità”: a lungo rigorosamente bandita dalla turbofinanza globalista, entrata però da tempo in crisi. Nel frattempo il “sovranismo economico” ha ripreso vigore ovunque non solo come bandiera partitica, ma anche come pratica di governo. Anche Draghi ha utilizzato in Italia i nuovi “golden power” che hanno bloccato la vendita di piccole aziende tecnologiche italiane alla Cina. Ma anche Tim – oggetto dell’esemplare “madre di tutte le Opa” – sta ridiventando oggetto di attenzioni nazionalistiche, fra presenza della francese Vivendi, mire del fondo americano Kkr e progetti targati Cdp sullo scorporo della rete. È questo contesto a rendere oggettivamente problematica la conferma di Donnet: prodotto di un’epoca superata, cui neppure il recente “patto del Quirinale” fra Italia e Francia sembra garantire continuità.
Sia Caltagirone che Del Vecchio sono invece grandi e riconosciuti imprenditori-finanzieri italiani – fra l’altro con buone proiezioni in Francia – e sulle Generali stanno puntando capitali loro. Stanno facendo lo stesso in un tentativo parallelo di scalata alla stessa Mediobanca: all’opposto di quanto avveniva nella stagione di “capitalismo senza capitali” in cui via Filodrammatici (controllata dall’Iri) sorresse per decenni nel secolo scorso. Può il Governo italiano contrastare due grandi player italiani di livello internazionale, che stanno investendo capitali italiani su una grande azienda italiana? Può dire all’inventore di Luxottica (oggi Essilor) che non è gradito alla guida di in un’operazione che stabilizzerebbe in mani italiane il controllo delle Mediobanca-Generali? Tanto più che a Milano e a Trieste gli assetti sono quelli lasciati nell’eredità da Cuccia e Maranghi: ormai obsoleti (all’epoca anche la Fiat era ancora controllata dalla famiglia Agnelli).
Non meno significativo appare dunque – in scia inerziale – il silenzio delle forze politiche nazionali: totalmente concentrate, in questi giorni, sul futuro della presidenza della Repubblica e quindi dello stesso Governo. E forse alla radice dell’ennesima “bizza” di Catagirone c’è anche o principalmente questo: la consapevolezza che nessuno, prevedibilmente, aprirà bocca sull’accelerazione forzante del suo “patto” sulle Generali. Un silenzio che, anche su questo fronte, può essere sintomo della debolezza complessiva della politica nel pilotare l’Azienda-Paese. Ma tant’è: e per Draghi “lasciar fare al mercato” – cioè attendere e vedere come la “guerra delle Generali” si risolverà in Borsa e nelle assemblee societarie – appare alla fine una scelta ovvia.
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