I giornalisti italiani erano chiamati a rispettare per primi la consegna del silenzio-stampa per favorire il rilascio della collega Cecilia Sala. Molti di essi, invece, hanno preso ad azzuffarsi fra loro, in modi spesso strumentali, gonfiando una bolla mediatica.
Alcuni hanno argomentato che rompere il silenzio e “far chiasso” sulla vicenda – ufficialmente quella di una giornalista arrestata in un un Paese illiberale – fosse una strada utile, addirittura necessaria e irrinunciabile. Lo è stata certamente per riattizzare la polemica globale partisan attorno alla “libertà assoluta di stampa” contro le presunte minacce impersonate da Elon Musk nei Paesi occidentali – ormai quasi tutti – in cui le sinistre sono state relegate all’opposizione dalla democrazia elettorale.
C’è stato chi ha accusato il Governo italiano di non aver allertato la Sala dei pericoli che avrebbe corso a Teheran in questo periodo (nelle stesse ore ha avuto qualche eco la stessa lagnanza da parte del fratello di uno dei due alpinisti morti sul Gran Sasso). Altri hanno imbracciato il caso contro l’Iran islamico, che continua a essere il vero avversario geopolitico di Israele (la stessa giornalista, oggi collaboratrice del Foglio, ha ricevuto nel 2022 il Premio Nilde Iotti per un articolo di tema iraniano su Vanity Fair che citava nel titolo “il Grande Satana”).
Non è mancato l’intervento di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto protagonista di una vicenda su alcuni lati assimilabile a quella della Sala. Trascriviamo qui la versione di Wikipedia sul caso Sgrena: “Venne rapita il 4 febbraio 2005 dalla Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad, in Iraq, per realizzare una serie di reportage per il suo giornale. È stata liberata dai servizi segreti italiani il 4 marzo, in circostanze drammatiche che hanno portato al suo ferimento e all’uccisione, ad opera di soldati statunitensi, di Nicola Calipari, dirigente dei servizi di sicurezza italiani (SISMI), che dopo una lunga ed efficace trattativa la stavano portando in salvo. Secondo varie fonti, la liberazione è avvenuta a fronte del pagamento di un riscatto di oltre 5.000.000 €”. All’epoca il governo italiano era guidato da Silvio Berlusconi e sostenuto da una maggioranza di centrodestra.
“Raccontare la verità espone a rischi”, ha detto Sgrena, rispondendo dalla Stampa sul caso Sala e difendendo a prescindere i diritti dei giornalisti. Tutte le versioni sul suo rapimento – anche quella fornita più volte dalla stessa giornalista – concordano sul fatto che la situazione a Baghdad (due anni dopo l’invasione da parte degli Usa e con Saddam Hussein ancora in vita) fosse palesemente di rischio elevato. E la Sgrena era senza dubbio consapevole dei pericoli di volare dall’Italia in Medio Oriente, avventurandosi in zone di Baghdad controllate da quelli che la stampa anti-americana sosteneva come “resistenti” (al pari oggi dei miliziani filo-iraniani di Hamas nei territori palestinesi).
Il rischio, in ogni caso, si materializzò dapprima per la Sgrena: i “valorosi resistenti islamici” non la giudicarono affatto una reporter “indipendente e democratica” e la trattennero per un mese minacciando di giustiziarla come altri ostaggi occidentali dell’epoca in Medio Oriente. Poi il colonnello Calipari fu vittima di un controverso fuoco amico: il pagamento di un riscatto a terroristi islamici andò certamente a violare gli standard dell’occupante americano, cioè del Paese principale alleato dell’Italia nella Nato.
Fu comunque la vita di Calipari il vero prezzo pagato dallo Stato italiano pur di confermare una linea d’azione storica: “riportare a casa” qualunque cittadino italiano in pericolo all’estero, soprattutto se in stato di prigionia. Ciò in accordo con il principio costituzionale di uguaglianza fra i cittadini: sempre e ovunque.
L’ultimo caso – nel 2024 – ha riguardato Ilaria Salis rimpatriata per iniziativa diretta dalla Premier Giorgia Meloni sull’omologo ungherese Viktor Orban. Salis (poi eletta all’europarlamento nelle liste dell’estrema sinistra) era stata arrestata e processata a Budapest: vi si era recata appositamente dall’Italia per partecipare a manifestazioni di stile antagonista. Chiaramente a sfidare sul terreno dell’ordine pubblico lo stato di diritto di un Paese appartenente all’Ue come l’Italia.
Già nel suo Paese d’origine, la Salis ha sempre sostenuto la legittimità dell’occupazione di case. La neo-eletta a Strasburgo – assieme alla “capitana” tedesca Carola Rackete, protagonista di un assalto militare a un porto italiano – è dunque più in generale antagonista dello stesso stato di diritto, di qualsiasi Paese sovrano. Resta il fatto che quello in vigore in ogni Paese sovrano – democratico o no – non lo possono decidere né i giornalisti, né gli attivisti politici di altri Paesi. A meno di dichiarare decaduto lo stato di diritto – interno e internazionale – ovunque: negli Usa come in Corea del Nord; in Italia come in Iran.
Per riportare a casa Cecilia Sala pare tuttavia preferibile rinviare il dibattito.
Chi scrive rientra in silenzio stampa, augurandosi che la collega in carcere a Teheran possa essere liberata per tornare al più presto in Italia.
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