Caro direttore, ieri mattina sulla prima pagina di uno dei due quotidiani nazionali più diffusi si poteva leggere con molto risalto: “Avviso del Quirinale: non ci sono altre maggioranze nella legislatura”.
L’editoriale dell’altro quotidiano – firmato da un giudice emerito della Consulta – era invece dedicato al confronto sulla legge elettorale e conteneva questo passaggio: “La Corte Costituzionale ha più volte ribadito che compito della formula elettorale è di assicurare rappresentatività e governabilità. Essa non deve tradire il pluralismo del Paese, ma deve produrre una maggioranza parlamentare coesa, in modo da sostenere governi non effimeri”.
Un certo spirito del tempo intesse entrambe le affermazioni.
La prima viene accreditata con molto risalto da una delle più riconosciute “fabbriche di giornalismo” italiane. Ma è un fatto che vi si dia per scontato che in Italia il Presidente della Repubblica possa “avvisare” le forze politiche e l’opinione pubblica riguardo il percorso della legislatura e gli sviluppi in caso di crisi di governo. La Costituzione repubblicana in vigore dice cose molto diverse. Dice che l’Italia è una democrazia parlamentare, nella quale il Presidente della Repubblica dispone sì di precisi poteri e prerogative nell’esercizio della sua funzione di garanzia ultima nella vita del Paese.
Certamente conferisce lui l’incarico al candidato premier e decide lui, alla fine, se sciogliere o no le Camere. Può inviare “messaggi” istituzionali alle Camere (ben diversi da “avvisi” politici a mezzo stampa). Ma sicuramente, nella prospettiva di una Carta subentrata allo statuto di una monarchia degenerata in dittatura, il Quirinale non è un player politico. In Italia il cuore della sovranità è e resta il Parlamento: sono quei cittadini italiani cui la democrazia elettorale affida in via rappresentativa l’esercizio del potere legislativo e il controllo completo e costante sull’esercizio del potere esecutivo.
Non vi sono dubbi che la storia repubblicana reale sia stata punteggiata di aggiustamenti talora complessi e problematici fra la Presidenza e i poteri dello Stato: ma è un fenomeno fisiologico in tutte le democrazie. La Costituzione stessa può essere cambiata, è stata cambiata: ma non attraverso “avvisi” mediatici.
L’ultimo tentativo di modificarla ridimensionando il ruolo del Parlamento è stato bocciato senza appello in un referendum costituzionale. Per la cronaca il progetto di riforma respinto nel 2016 è stato promosso in via partizan da un governo di centro–sinistra (già di per sé attraverso una forzatura istituzionale verso il Parlamento). E nella risposta negativa degli italiani, appena tre anni fa, si è potuto cogliere chiaramente questo messaggio sostanziale: se il Paese è in crisi il problema non sono le regole costituzionali, ma l’efficacia dell’azione del governo. Tre anni dopo la crisi del Paese è peggiorata e il confronto pubblico sembra ancora volerla eludere, fingendo di impegnarsi su fronti presunti e svariati di emergenza istituzionale. Invocando soluzioni e solutori “terzi” per una presunta e pregiudiziale “crisi della politica”.
Le regole elettorali sono oggi il principale – anche se non l’unico – ballon d’essai di questa fase di sostanziale paralisi de–responsabilizzata nella governance del Paese. Una fase che sembra ad un tempo effetto e causa di progressive forzature di fatto della democrazia costituzionale.
Che una legge elettorale debba essere funzionale il più possibile alla “rappresentatività” del Parlamento e alla “governabilità” del paese è un’ovvietà in una Repubblica democratica: verrà detto così a tutti gli studenti cui – auspicabilmente – verrà nuovamente insegnata l’educazione civica. E la Consulta lavora certamente ogni giorno – nelle sue pronunce di costituzionalità – per ribadire e affinare ogni volta i principi della Carta, esercitando così una sorta di “alta pedagogia” nella Repubblica.
Appare invece più sottilmente insidioso – soprattutto nell’Italia del 2020 – profilare per la Consulta un’attenzione a che una legge elettorale produca “una maggioranza parlamentare coesa, in modo da sostenere governo non effimeri”. Può sembrare – e in parte è – un auspicio generale impossibile da non sottoscrivere. L’esperienza sembra tuttavia suggerire qualche riflessione in più.
All’esito del voto 2013, ad esempio, in Parlamento non era visibile una maggioranza chiara, “coesa”. Se ne formò una fra un Pd “non vincitore” e un nugolo di piccoli partiti di sinistra, centro e centrodestra: molto frammentata e difficile in partenza da giudicare “coesa” (basti pensare al ruolo cruciale dei senatori capeggiati da Denis Verdini, “in prestito” da Silvio Berlusconi). Questa maggioranza si è invece dimostrata molto “coesa” nella tenuta parlamentare, al punto da reggere un’intera legislatura. Ha generato il governo Renzi: indubitabilmente “non effimero”. Indubitabilmente più “effimeri” sono stati invece il governo di Enrico Letta (sostituito a Palazzo Chigi da un non parlamentare, in una crisi extraparlamentare in cui il Quirinale è stata parte attiva) e il successivo governo Gentiloni: imposto da Renzi alla sua stessa maggioranza e al Quirinale benché il suo governo non fosse stato sfiduciato dal Parlamento (e il referendum non aveva riguardato una riforma “di governo”).
Alla fine di un quinquennio “coeso” e “non effimero”, in ogni caso, la maggioranza di governo ha subìto una clamorosa sconfitta elettorale. Diciotto mesi dopo aver lanciato un chiaro segnale di sgradimento per Renzi, il suo esecutivo e la sua maggioranza, il corpo elettorale ha definitivamente bocciato la “rappresentatività” di quel Parlamento “coeso” e la “governabilità” della crisi italiana assicurata da una stagione di governo tutt’altro che “effimera”.
È sbagliato chiedere alla Corte Costituzionale di svolgere compiti di suasion che la Costituzione non le assegna. Ed è profondamente anti-costituzionale – e quindi anti-democratico – tentare di manipolare la Costituzione e gli organi della Repubblica per impedire l’esercizio della sovranità popolare in una Repubblica parlamentare. Il problema del Paese non sono le regole della politica e del governo: sono la politica e il governo. E resta il celebre detto di un premier britannico che la spuntò su un dittatore tedesco: “La democrazia è il peggior regime. Salvo tutti gli altri”.