Caro direttore,
il passaggio politico continua a srotolarsi in modi opachi. Non sembra, ad esempio, inquadrabile in una pacifica prassi costituzionale l’immagine di un presidente della Repubblica che firma solerte lo scioglimento delle Camere senza neppure tentare un’ultima consultazione e sotto lo sguardo severo di un premier non parlamentare, dimissionario senza essere mai stato sfiduciato in Parlamento. E in questo quadro di leggibilità poco chiara spicca la grande agitazione di Silvio Berlusconi.
Il leader di Forza Italia – che da ieri sta andando in frantumi – appare letteralmente angosciato dal vedersi attribuita la responsabilità diretta di aver provocato l’uscita di scena di Mario Draghi. Ma è un’accusa che neppure Giuseppe Conte – che ha certamente aperto una prima crepa nella maggioranza di coalizione – si è mostrato disposto ad accettare in quanto tale. Avendo peraltro più di una ragione dalla sua parte: anzitutto l’aver fatto astenere – e non esprimere voto contrario – i parlamentari M5s sul decreto Aiuti; e senza per questo aver mandato in minoranza l’esecutivo.
Lo stesso leader leghista Matteo Salvini non si sta scusando di nulla perché per nulla sembra dover porgere scuse o spiegazioni al premier o al Quirinale. La mozione Lega-FI a favore di un Draghi-bis è stata presentata solo dopo le prime dimissioni di Draghi, quelle del 14 luglio, giorno della fiducia sul dl Aiuti, in seguito a un sommovimento politico del tutto normale in una democrazia parlamentare. E la mozione di mercoledì prevedeva programmaticamente la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, pur prospettando un rimpasto nell’esecutivo legato ai travagli interni a M5s. Ancora una volta: è stato il premier a rifiutare uno sviluppo fisiologico (facendone anzi leva per reiterare le dimissioni): non è stata la Lega a “licenziarlo”. E neppure Forza Italia.
Dietro l’affanno di Berlusconi sembra di poter scorgere dell’altro. È probabile che davanti al Cavaliere sia improvvisamente comparso lo spettro del 2011: quando fu costretto ad abbandonare traumaticamente una premiership sostenuta da una solida maggioranza conquistata nelle urne (è stata l’ultima volta nella storia dell’Italia repubblicana). Avvenne durante una “operazione militare speciale” della Nato a guida Usa contro la Libia del colonnello Gheddafi (che morì linciato nella distruzione del suo regime). Avvenne perché il “signore del petrolio” di Tripoli – un musulmano laico certamente antagonista rispetto all’Occidente, una sorta di Fidel Castro africano – continuava a contare su sponde internazionali importanti: certamente la Russia di Vladimir Putin; ma anche l’Italia (e non solo quella di Berlusconi). Il Cavaliere – forse proprio attraverso rotte petrolifere – aveva a sua volta stretto un’entente cordiale con il leader del Cremlino: sul filo proverbiale del conflitto d’interessi fra ruolo istituzionale e inguaribile dinamismo di businessman (almeno di questo erano convinti a Washington). Ma anche in questo caso il Cavaliere non è stato uno spregiudicato solista: era in compagnia – come minimo – del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, padre di Nord Stream 1.
Gli italiani ricordano la seconda metà del 2011 per la crisi dello spread e quindi per l’austerity imposta dalla Ue con l’imposizione da parte del presidente Giorgio Napolitano di un esecutivo tecnico-istituzionale presieduto dall’eurocrate Mario Monti. Ma in pochi, ormai, dubitano che il caso italiano sia stato nei fatti una rotella di un’operazione geopolitica più ampia. E in essa ebbe la sua prova del fuoco lo stesso Draghi: che – designato ma non ancora insediato come presidente della Bce – co-firmò con Jean-Claude Trichet le misure-diktat che il governo Monti realizzò prima di Natale.
Berlusconi in quelle settimane drammatiche si mosse con estremo realismo. Di fronte alla dimensioni e alla durezza delle pressioni esterne oppose qualche resistenza tattica, utile a una ritirata ordinata: sul fronte politico e su quello personale. Prese le mosse allora uno “scambio” che si è poi rivelato una vera e propria “infrastruttura politica” nell’avvio spurio della Terza Repubblica. Il Cavaliere – al netto dei provvedimenti giudiziari che ne hanno sospeso l’eleggibilità – non è mai più stato protagonista attivo nella vita politica nazionale. È stato tuttavia determinante nel garantire al centrosinistra – “non vincitore” al voto 2013 – la possibilità di governare per cinque anni grazie a Denis Verdini e alla sua pattuglia di senatori. Il “patto del Nazareno” è stato sciolto – apparentemente – quando Matteo Renzi ha respinto la candidatura di Giuliano Amato al Quirinale nel 2015, promuovendo Sergio Mattarella. Ma non è mai crollato (neppure nell’anno del governo Lega-M5s) il muro protettivo allestito dal 2011 attorno alle attività finanziarie e imprenditoriali della famiglia Berlusconi: anzitutto Mediaset. Il Cavaliere non è diventato senatore a vita (come avrebbe voluto, assieme al rivale Romano Prodi); ma ha visto esaurirsi il giustizialismo che ha costituito la permanente spina nel fianco della sua lunghissima parabola politico-finanziaria.
Berlusconi è ultimamente sopravvissuto anche al Covid e ad altri problemi di salute. Da ieri però il quadro di equilibri che ne continuava a garantire una posizione di relativa tranquillità non esiste più. E sul voto del 25 settembre aleggia pesante l’ombra della “guerra di Putin”: così continua a chiamarla il presidente americano Joe Biden; che nel 2011 era il vice di Barack Obama alla Casa Bianca. E poi Draghi che decide tempi e modi della transizione italiana non sembra affatto un personaggio desideroso di tornare agli “studi prediletti” in qualche università prestigiosa. Appare, piuttosto, un leader enormemente dotato di sponde internazionali, forse nuovamente proiettato verso il Quirinale che gli è stato negato dal Parlamento sei mesi fa.
Non sorprende, quindi, che il Cavaliere sia molto agitato e che si profonda nelle classiche “scuse non richieste”. Come oggi in Ucraina – e come affermava il ministro della Difesa del Berlusconi 1, Cesare Previti – non sembra questo il tempo in cui “si fanno prigionieri” .
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