Il Presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato la grazia per 37 condannati a morte per reati federali. Chi qui scrive ne è felice: per i detenuti nei bracci della morte, per i quali l’attesa dell’esecuzione è già stata la peggior pena immaginabile; e anche per la civiltà occidentale, che proprio negli Usa continua a mantenere una misura di giustizia barbara, non difendibile con il mantra della deterrenza.



Queste premesso, è difficile non vedere in un passo di sapore etico un ennesimo tentativo di Biden di sbiancare un’eredità politica imbarazzante: tale, alla fine, anche nei gesti di clemenza “in articulo mortis”.

Il perdono presidenziale ai condannati a morte è giunto solo dopo quello – oltremodo imbarazzante – riservato dal presidente al figlio Hunter: primissimo nome della lista dei graziati che tradizionalmente viene concessa come prerogativa a ogni Presidente al congedo. A questo proposito: è una previsione “para-monarchica” discussa da tempo nella cornice costituzionale di una ferrea democrazia repubblicana. Viene in ogni caso confermata ora da una presidenza “dem” battuta, proprio quando i “dem” stessi vorrebbero ora metter mano alla Corte Suprema, accusando preventivamente Donald Trump di volerla manipolare.



Il gesto di Biden non appare comunque scevro di almeno due “doppie morali” politiche. La prima – interna agli Usa all’indomani del voto presidenziale – è presto individuabile. Il Biden inizialmente ricandidato – dopo aver stravinto le primarie del suo partito – non ha mai citato nel programma per il suo secondo mandato una riflessione politica (“federale”, “presidenziale”) sulla pena di morte. E un singolo atto di clemenza – per quanto non trascurabile – è giunto solo dopo che la Vicepresidente Kamala Harris è stata sconfitta il 5 novembre. E senza che si ricordi neppure di quest’ultima – già procuratore generale della California – un’attenzione “politicamente corretta” alla pena capitale, anzi: Harris si è premurata di ricordare di tenere in casa una pistola, nessun cedimento “woke” sul fronte della criminalità violenta. Il perdono in extremis della Casa Bianca in disarmo tende quindi ad apparire come uno dei tanti “calci dell’asino” che Biden al suo successore, che i “dem” sconfitti dipingono ancor di più come un barbaro feroce. Ma non è affatto certo che i 37 graziati avrebbero lasciato le loro “barbariche” celle di morituri se Biden fosse stato rieletto o Harris avesse battuto Trump.



È però sul versante geopolitico che la “bontà” finale di Biden assume toni ancor meno limpidi. Dall’eredità – politica ma soprattutto morale – del Presidente non potranno mai essere cancellati i 45mila morti di Gaza: in maggioranza civili, per larga parte uccisi da armi costruite in Usa e fornite senza interruzione a Israele. Senza mai reali esitazioni da parte dell’Amministrazione “dem”: neppure per il destino di molte decine di ostaggi israeliani (alcuni anche con passaporto Usa) ancora nelle mani di Hamas oppure morti nel frattempo.

In Ucraina, intanto, secondo i dati rivelati dal Presidente Volodymyr Zelensky, i militari caduti in tre anni di guerra con la Russia sarebbero stati 43mila. Sempre astronomicamente di più dei 37 criminali cui Biden – secondo Presidente cattolico nella storia americana e stratega di lungo corso delle “guerre per procura” nell’Est Europa – ha risparmiato la vita. Nell’ansia di ribadire una pretesa supremazia etica verso il trumpismo vincente: ma gli elettori americani hanno voluto negare anche quella.

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