Caro direttore,
Mario Monti, in un’intervista a Repubblica, ha criticato il governo Meloni che dovrebbe “trattare con l’Europa” e lasciar perdere i “nazionalismi”. Qualche nota a margine pare utile, non per polemica sul passato personale dell’ex premier, quanto per riflessione sul presente politico-finanziario del confronto fra Italia ed Europa.
Questo, ridotto all’osso, può essere descritto così: la riattivazione dei parametri Ue di stabilità economico-finanziaria è in alto male (per la crisi geopolitica e la stagflazione, per l’avvicinarsi del voto per l’europarlamento, per il declino dell’eurocrazia di Bruxelles e la debolezza interna dei governi di Germania e Francia) ma “l’Europa” sta imponendo egualmente all’Italia la firma del Mes entro fine anno. L’Italia, quindi, dovrebbe accettare di ritrovarsi “fuori parametro” al buio: certamente di molto rispetto alle regole sospese dal 2021, ma senza conoscere con esattezza le conseguenze (l’unico precedente – a parametri in vigore – è quello del commissariamento Ue-Bce-Fmi della Grecia nel 2015). Questo è l’oggetto della “trattativa” (molto complicata) fra l’Italia e la Commissione ormai in scadenza, ma soprattutto fra Roma e gli altri Paesi membri, nel Consiglio Ue (cui pare preconizzato per il futuro Mario Draghi), nell’Ecofin e nell’Eurogruppo (qui c’è il ministro Giancarlo Giorgetti), non da ultimo nelle stanze dei bottoni Bce (dove da novembre il neo-governatore Fabio Panetta salirà nel consiglio generale, sostituito in comitato esecutivo dal vicedirettore generale della Banca d’Italia Piero Cipollone).
Nel frattempo il governo democraticamente eletto a Roma un anno fa è soggetto dall’Europa a varie pressioni para-ricattatorie: i dubbi sul versamento della terza rata del Pnrr e la probabilità che la quarta non venga riconosciuta se il Mes non verrà firmato. Per non parlare della chiusura arbitraria delle frontiere tedesche e francesi alla redistribuzione dell’ondata di migranti che sta investendo l’Italia, quattro anni dopo che una “capitana” tedesca violò manu militari la chiusura del porto di Lampedusa. E mentre ai muri armati che difendono da sempre le frontiere in Grecia o Spagna la Ue continua a dare pieno appoggio. O a indennizzare la Turchia per trattenere milioni di profughi mediorientali e asiatici sulla rotta balcanica.
È su questo sfondo che Monti non mostra dubbi nel richiamare la premier in carica a lasciar perdere le visite al premier ungherese Orbán per dedicarsi invece a una “trattativa” con l’Europa. Premesso che il commissario Ue agli affari economici è l’ex premier italiano del Pd Paolo Gentiloni, nominato a valle del ribaltone italiano del 2019 contro il centrodestra, finora completamente irrilevante a Bruxelles e forse candidato in Italia per Strasburgo fra otto mesi, non sembra fuori luogo ricordare la “trattativa” con l’Europa di cui fu protagonista Monti nel 2011.
La premessa fu l’attacco speculativo al debito pubblico italiano scatenato dalle agenzie di rating internazionali in coincidenza con l’“operazione militare speciale” lanciata dalla Nato su pressione francese contro la Libia del colonnello Gheddafi (obiettivo collaterale era il premier italiano Silvio Berlusconi, notoriamente in rapporti con Gheddafi così come con il presidente russo Vladimir Putin). Il governo di centrodestra – democraticamente eletto con netta maggioranza tre anni prima – cadde e il presidente della Repubblica, il “dem” Giorgio Napolitano, chiamò a guidare un governo istituzionale Mario Monti (che accettò non prima di aver “concordato” la nomina immediata a senatore a vita).
I buoni rapporti con l’Europa dell’ex commissario Ue originavano d’altronde da una prima designazione in Commissione Ue – nel 1994, in coppia con Emma Bonino – da parte del governo Berlusconi 1, sostenuto anche da Lega e An.
Lo sviluppo della “trattativa” fra il governo Monti e l’Europa è agli annali. Il nuovo premier – e ministro dell’Economia ad interim – si ritrovò intatta sulla scrivania una lettera inviata a Palazzo Chigi dalla Bce con doppia firma: quella del presidente uscente della Bce, il francese Jean-Claude Trichet, e quello entrante, l’italiano Mario Draghi. Nel testo si specificavano le condizioni cui l’Italia doveva sottostare per beneficiare del sostegno ai titoli pubblici da parte della Bce. Il contenuto di quel diktat – ricopiato nel “decreto salva Italia” di fine 2011 – fu comunicato da Monti in una conferenza stampa che tutti ricordano soprattutto per le lacrime del ministro per il Welfare, Elsa Fornero, che dovette firmare il destino senza reddito né pensione di centinaia di migliaia di “esodati”.
Dodici anni dopo, perfino esperti non italiani concordano che l’austerity imposta all’Italia – e in parte quella successiva alla Grecia – furono un errore: nella sostanza non risolsero i problemi economico-finanziari dell’Italia (anzi forse li aggravarono, così come le privatizzazioni vent’anni prima) e nella forma danneggiarono la coesione politico-istituzionale interna alla Ue. Gli italiani, intanto, avevano giudicato Monti già 18 mesi dopo, nel passaggio di un regolare voto democratico: rigettando senza appello sia la sua “trattativa” con l’Europa sia la trasformistica proposta politica di Scelta Civica.
Di quella “trattativa” fra Italia ed Europa è rimasto solo il seggio a vita per Monti a Palazzo Madama. Con un atteggiamento peraltro ondivago: polemico, ad esempio, con il premier Pd Matteo Renzi (firmatario del Jobs Act, unica vera riforma fatta dall’Italia nell’ultimo decennio); favorevole invece al premier M5s Giuseppe Conte dopo il ribaltone che riportò il Pd in maggioranza mantenendo in vigore il reddito di cittadinanza.
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