Giuliano Ferrara non ha avuto certo torto nell’accendere una dura querelle attorno alle vignette anti-israeliane pubblicate dal Fatto Quotidiano. Fino ad oggi, obiettivamente, non era mai accaduto nulla del genere sui media italiani, certamente non contro Israele o gli israeliti (l’Europa si era d’altronde mobilitata contro la sanguinosa reazione terroristica alle vignette anti-islamiche di Charlie Hebdo). Non appare nel torto, tuttavia, neppure il direttore del Fatto, Marco Travaglio, quando replica a muso duro al fondatore del Foglio che è inutile fingere di non capire, prendendosela con una vignetta e “negandola” tout court. È inaccettabile anzitutto per un giornalista, annalista del giorno per giorno. Del 7 ottobre 2023 e – fra pochi giorni – del suo primo anniversario.
Caso ha voluto che proprio ieri mattina il principe dei columnists del New York Times (Thomas Friedman, israelita come la famiglia Sulzberger, storica editrice della testata), abbia pubblicato una lunga opinione dal titolo “Perché tutto si sta avvitando per Israele”. Le ultime parole giungono a paventare la fine del Paese e l’inizio di una nuova diaspora: non più provocata da un impero invasore, ma dal degrado interno dell’economia e della democrazia israeliane, tali da costringere via via “le persone di talento” ad andarsene. Sarebbe un atroce contrappasso per il Ritorno dopo la Shoah, la certificazione del fallimento storico dello Stato di Israele, fondato 76 anni fa e finora sempre difeso con successo nel suo indubbio cammino di progresso.
“Israele non può pensare di condurre oggi una guerra di attrito – annota preoccupato Friedman – senza molte risorse da parte degli Usa e degli alleati occidentali; senza molti alleati arabi ed europei, e – forse soprattutto – senza una piena legittimazione”. Visto da New York, non è certo un’osservazione banale quella riguardante lo stato dell’opinione pubblica europea sulla crisi mediorientale. Non lo è quando – per l’appunto – un quotidiano italiano si sente infine autorizzato (dagli eventi e dal clima d’opinione) a pubblicare vignette satiriche che spingono la critica al “sionismo” fino ai confini dell’antisemitismo: ciò che ovunque è ormai considerato un reato, di fatto e spesso di diritto.
Su questo sfondo la senatrice Liliana Segre – testimone della Shoah – ha voluto interrompere un silenzio prolungato per ribadire la sua angoscia “per tutti i bambini vittime della guerra”. Lo aveva già affermato alla vigilia dell’ultima Giornata della Memoria (e in parte in un’intervista allo stesso New York Times) mettendo a distanza le diverse “responsabilità” del governo di Gerusalemme. Certamente la sua preoccupazione era – fin da allora, prima dell’inizio delle proteste studentesche anti-israeliane anche in Italia – che le celebrazioni della prossima Giornata della Memoria siano a rischio, e che il valore assoluto della Shoah – come monito perpetuo contro l’odio, a cominciare da quello antisemita – venga offuscato dal fumo delle guerre che da un anno circondano Israele.
Quel fumo – denso e spesso tossico – ha raggiunto anche le pagine di un quotidiano italiano. Resta il fatto che non è lanciando fatwe contro il fumo che si spengono gli incendi. Sui teatri di guerra e nelle opinioni pubbliche.
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