Caro direttore,
sarà come sempre necessario attendere il testo in Gazzetta Ufficiale per capire quanto davvero i “decreti Salvini” siano stati modificati l’altra notte dal Consiglio dei ministri attraverso un decreto-legge omnibus contenente “disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare”, ma anche “di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento e di contrasto all’utilizzo distorto del web”. L’altro ieri, nel frattempo, le informazioni al riguardo hanno avuto una visibilità molto limitata (a metà giornata la notizia era pressoché assente sui siti dei maggiori media nazionali) con input talora contraddittori. Se uno dei maggiori quotidiani nazionali assicurava che i decreti sicurezza erano stati “cancellati”, un altro riferiva che le multe alle Ong – snodo chiave – erano state soltanto “ridotte”. In più il decreto ha buone chance di andare in repertorio col nome di “decreto Willy”, per via dell’inasprimento del cosiddetto “Daspo urbano” contro la movida violenta.
Il comunicato di Palazzo Chigi autorizza certamente ad affermare che “qualcosa è cambiato” sul fronte migranti. Ma prospetta anche “un nuovo Sistema di accoglienza e integrazione”: una formula che in filigrana ricorda parecchio i tanti Dpcm anti-Covid attuati tardi o male (o mai) per le deficienze burocratiche; oppure i provvedimenti lasciati nel limbo politico del “salvo intese”. Il primo a non accreditare l’effetto-svolta è sembrato comunque lo stesso premier Giuseppe Conte, che in un virgolettato attribuitogli da un quotidiano ha così sintetizzato il passo: “Né porti aperti, né porti chiusi”.
Prima ancora delle questioni sostanziali, ha comunque colpito la singolare gestione comunicativa del passaggio, da parte di un esecutivo nato tredici mesi fa con la missione politica fondamentale di abolire i decreti Salvini e divenuto poi un governo essenzialmente “premieristico-mediatico” allo scoppio della pandemia.
Lunedì sera, la convocazione del Consiglio dei ministri per le 21 era ufficialmente priva di annunci sul tema. L’ordine del giorno menzionava tutti i dossier sul tavolo (a cominciare dall’importante Nadef), ma nulla diceva sull’esame di un “decreto migranti”. E i siti dei grandi media – a cominciare dall’Ansa – si sono correttamente attenuti alla comunicazione ufficiale di Palazzo Chigi e hanno ignorato il caso fino a tarda sera. Solo il Tg1 delle 20 ha anticipato – ma solo con un brevissimo accenno dell’anchorman – che il Consiglio si sarebbe occupato della revisione dei decreti sicurezza.
La riunione, iniziata alle 21.43, si è conclusa alle 0.15: un orario ormai assolutamente ordinario, anzi favorevole per una conferenza stampa del premier, a reti tv unificate piuttosto che in diretta su qualche social media. Nulla di tutto questo è avvenuto nell’occasione: né Conte né il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese (presentatrice del decreto), né altri partecipanti al Consiglio hanno rilasciato commenti minimi. Neppure ieri mattina. Il solo a rompere il silenzio notturno è stato il leader del Pd, Nicola Zingaretti, secondo il quale “i decreti Salvini non ci sono più”.
Perché questo curioso oscuramento mediatico, cui non può essere stata estranea la ferrea comunicazione di Palazzo Chigi? È banale, ma non fuorviante ipotizzare una conferma dell’estrema difficoltà politica per il governo di maneggiare le politiche per la sicurezza: a maggior ragione se esse restano il debolissimo collante ufficiale della maggioranza giallo-rossa. E in tredici mesi il dossier è divenuto semmai più problematico.
M5s – che in Parlamento resta il primo partito e si avvicina a una resa dei conti interna a inizio novembre – resta recalcitrante a “cancellare” una normativa varata dal Conte 1. Ed è una condizione che crea da sempre imbarazzo personale al premier: a maggior ragione dopo che, appena quattro giorni fa, il Tribunale di Catania ha convocato Conte come testimone al processo che vede imputato Matteo Salvini, per il quale la Procura ha già reiterato la richiesta di archiviazione. Ma nell’ottobre 2020 è l’intero contesto italiano a rendere un decreto-migranti non facilmente “vendibile” al più ampio elettorato…
Il Nadef – approvato proprio l’altra notte – conferma una situazione socio-economica difficilissima, di fronte alla quale il governo continua a contrapporre temporeggiamenti e rinvii. La seconda ondata Covid, nel frattempo, sta prospettando una nuova escalation di rischio sanitario e l’ipotesi di nuovi provvedimenti restrittivi. Sulla prima il governo ha già affrontato con qualche affanno – poche settimane fa – l’allarme della Regione Sicilia; mentre sulla possibilità di nuovi lockdown il governo – soprattutto dopo il voto regionale di metà settembre – appare sempre più nella morsa fra governatori “chiusuristi” (soprattutto al Sud giallo-rosso) e “aperturisti”, principalmente nel Nord industriale. L’accoglienza dei profughi è oggi quindi una priorità “scomoda”: non da ultimo perché la Ue “di Orsola” ha finora sistematicamente disatteso gli impegni di solidarietà verso l’Italia, che prevedibilmente continuerà a farsi carico dell’emergenza-sbarchi “in conto Recovery fund” (se e quando diverrà operativo).
Su questo sfondo, la domanda più corretta sembra allora: perché il governo ha voluto comunque varare un “decreto migranti”, per quanto parziale? Tre ipotesi di risposta, probabilmente miscelabili, appaiono le seguenti. Primo: offrire un sostegno minimo al leader Pd Zingaretti, altrimenti in sofferenza su tutti i lati del tavolo con l’alleato stategico M5s. Secondo: manifestare un rispetto non solo istituzionale – anche se tardivo – alle osservazioni formali del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in sede di promulgazione del secondo “decreto Salvini”. Terzo e non ultimo: non perdere la scia dell’enciclica di Papa Francesco, pubblicata proprio domenica, con un forte appello ad abbattere frontiere e accogliere “fratelli”.
Tutto questo annotato, il nuovo “decreto sicurezza” non è un Dpcm: dovrà essere convertito in legge entro il prossimo 5 dicembre. Da entrambi i rami del Parlamento. Ancora disegnati dalle elezioni politiche del 2018 e non ancora tagliati dall’esito del referendum.