Una decina di giorni prima che iniziasse la giostra del Quirinale, Lucetta Scaraffia ha scritto un godibile filo di nota sulle “affinità elettive” fra le presidenziali italiane e il conclave vaticano. Dopo i primi tre scrutini a Camere riunite, è almeno divertente indulgere un attimo nella traccia indicata dalla giornalista e scrittrice, fra l’altro curatrice fino al 2019 dell’inserto “Donne, Chiesa, Mondo” dell’Osservatore Romano.
Dove certamente il parallelo fra Montecitorio 2022 e Cappella Sistina – in tempi recenti – non regge è nella funzione lineare di “discernimento” dei primi round. Nel conclave lo scrutinio inaugurale (sia nel 2005 che nel 2013 è stato immediato dopo l’“extra omnes”) vede schierare tutti i candidati di partenza. Diciassette anni fa il primo votato (il cardinale tedesco Joseph Ratzinger) fu poi, ventiquattr’ore dopo, il Papa eletto. Al quarto scrutinio ottenne la maggioranza di due terzi: evitando il passaggio a una fase di ballottaggi a maggioranza assoluta. Ma nei due voti intermedi – quando Ratzinger vide solidificarsi il suo consenso – non mancò di emergere la candidatura alternativa del cardinale argentino Jorge Bergoglio: che avrebbe potuto bloccare il futuro Papa Benedetto. Non fu così, ma nei tempi e nei modi unici propri della Chiesa cattolica la “papabilità” dell’arcivescovo di Buenos Aires si ripresentò intatta durante lo “scrutinio d’assaggio” di otto anni dopo: e risultò vincente al quinto round.
In conclave non c’è mai stato spazio per maree di schede bianche o per candidature di pura bandiera, né per nomi bizzarri e irridenti. Giovanni XXIII e Paolo VI entrarono cardinali uscendone Papi, dopo essere stati protagonisti dal primo istante. Nella Sistina c’è stato d’altronde spazio – nel primo scrutino del primo conclave del 1978 – per alcuni voti a favore del cardinale Karol Wojtyła: che poi non entrò in partita quando infine il cardinale Albino Luciani uscì eletto nel compromesso finale fra i due big connazionali, Giuseppe Siri e Giovanni Benelli. L’arcivescovo di Cracovia era stato fatto sfilare come candidato vero, ma “per la prossima volta”: e si rivelò puntualmente tale quando “il prossimo conclave” fu convocato appena sette settimane dopo l’elezione di Giovanni Paolo I.
La maturazione vincente della candidatura Wojtyła, nell’ottobre 1978, è d’altra parte istruttiva di uno specifico “schema conclavario” forse non inutile a leggere la prima fase delle tredicesime presidenziali italiane. Nei primi quattro scrutini si consumò allora il match aperto fra gli italiani Siri e Benelli, dal quale entrambi uscirono “non vincenti”, cioè perdenti. Nella notte un gruppo di candidati europei decise di lanciare il nome del cardinale polacco, peraltro già accreditato in agosto: l’“ispirazione” raccolse una decina di voti al quinto scrutinio, 101 all’ottavo, con partita chiusa nel pomeriggio. Ma la dinamica non è stata troppo diversa per l’elezione di Papa Francesco nel 2013, quando il cardinale italiano Angelo Scola lasciò via libera all’“ispirazione-Bergoglio” riemersa con decisione fra le schede, forte anche dei voti raccolti otto anni prima.
Può darsi che qualcosa del genere sia accaduto ieri a Montecitorio sulla scia dei 125 voti per il Capo della Stato uscente Sergio Mattarella. Un’evidente “ispirazione”, un primo tentativo di rompere il polverone nebbioso delle schede bianche, delle terne che riempiono i summit extraparlamentari, dell’accolita di nomi impossibili che pure conquistano per un solo attimo la ribalta del tabellone delle votazioni. Nel segreto dell’urna parlamentare – come nel grande calice della Sistina – non è mai facile accoppiare mani e schede. Può essere elementare associare la mossa di ieri a una forzatura d’anticipo da parte del Pd, in risposta al movimentismo del centrodestra, peraltro ancora in attesa di concretizzazione.
“Votiamo Mattarella domattina al quarto scrutinio (?)”: una proposta intrisa di monito, una domanda con risposta incorporata. Se – come si legge sui media – il nome “vero” del centrodestra è il presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, dal centrosinistra si ribatte subito con il nome collaudatissimo del presidente in carica. E comunque – sembrano sollecitare i 125 voti a Mattarella, da chiunque siano venuti – è bene risparmiare al Paese, in questo momento, un lungo gioco a mosca cieca sul Quirinale (nel 1992 finì per infilarvisi anche la mafia con la bomba di Capaci). Mattarella – fondatore del Pd – è oggi la figura istituzionale meno divisiva: confermiamo lui e con lui Draghi a Palazzo Chigi fino al voto del 2023, quando non è improbabile che Mattarella stesso lasci come Giorgio Napolitano nel 2015 e forse ceda il posto allo stesso Draghi.
Ma – ancora diversamente dai conclavi sull’altra sponda del Tevere – l’ispirazione-Mattarella potrebbe non essere finalizzata a condensare un compromesso, quanto a chiamare allo scoperto le candidature reali, a fischiare l’inizio del match vero, della scelta finale. Il confronto – secondo molte congetture e interpretazioni – potrebbe vedere impegnati il premier Mario Draghi e l’ex presidente della Camera, Pierferdinando Casini, ma forse anche l’ex premier Giuliano Amato. O forse i due “politici”, se prevarrà l’evidente diffidenza di tutte le forze politiche per l’approdo al Quirinale di una figura tecnocratica come quella di Draghi (i voti a Mattarella possono aver espresso trasversalmente anche questa subitanea “nostalgia” di un presidente squisitamente politico).
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