Il 2020 si annuncia di grande impegno – in definitiva politico – anche per la Corte costituzionale. In un regime democratico di eccezionalità ormai quasi permanente, anche la Consulta ha visto evolvere il suo ruolo, a ruota stretta rispetto alla Presidenza della Repubblica (il Capo dello Stato in carica è fra l’altro un ex giudice costituzionale). Entrambi i soggetti designati dalla Carta all’ultima garanzia della Repubblica si sono visti chiamati sempre più nel merito del confronto politico e delle scelte di governo: ciò che ha reso sempre più impervio il loro lavoro nella democrazia sostanziale.



Ora per la Consulta si profila un ruolo di arbitro ultimo della definizione del possibile percorso elettorale: a incrociare il cammino del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari e quello abrogativo dell’abolizione del metodo proporzionale nel sistema elettorale.  Ma ci sarà prevedibilmente dell’altro, su fronti non meno delicati.



Poche settimane fa la Corte ha ad esempio restituito al gip di Taranto le carte di un ricorso d’incostituzionalità riguardante lo “scudo penale” previsto negli accordi fra governo e ArcelorMittal sul salvataggio Ilva, tuttora irrisolto. Nei giorni scorsi il politologo Angelo Panebianco, in un fondo sul Corriere della Sera, ha finito per richiamare in causa la Consulta su ambedue le questioni sostanziali rimaste inevase da una scelta apparentemente tecnica.

La prima e principale è il ruolo assunto dal potere giudiziario nella democrazia repubblicana, rispetto agli altri due poteri costituzionali e nelle dinamiche complessive della società italiana (il caso Ilva è su questo piano certamente significativo). Panebianco ha infatti discusso l’imminente varo della riforma della giustizia firmata dal ministro pentastellato Alfonso Bonafede incentrata sulla sospensione della prescrizione. Il passo – ad avviso del commentatore – segnerebbe l’instaurazione definitiva di una “repubblica penale”, egemonizzata dalla magistratura: proprio quando essa appare più assillata da inquietudini politiche, lacerazioni corporative, crisi di credibilità democratica. Questa “penalizzazione” della vita politico-economica – sottolinea Panebianco – rischia fra l’altro di rendere l’Azienda Italia estremamente poco appetibile per gli investitori esteri.