Caro direttore,
Al di là delle precisazioni dell’interessato e della stizzita reazione del Viminale, l’uscita di Walter Ricciardi sul possibile rinvio del voto di settembre ha avuto tutti i connotati di un opaco ballon d’essai. E ha suscitato un vespaio polemico prevedibile e giustificato.
Ad un consulente tecnico di un ministero non dovrebbe neppure venire in mente di intervenire pubblicamente su un profilo cruciale della democrazia costituzionale. Delle modalità di una consultazione elettorale possono e devono esprimersi solo Governo, Parlamento, Quirinale e Corte costituzionale. Meno che mai Ricciardi avrebbe dovuto formulare in tv un “consiglio non richiesto” nella direzione squisitamente politica di impedire un’attesa verifica elettorale sulla maggioranza di governo che lo ha nominato. Non avrebbe dovuto intromettersi con una classica “profezia a rischio di auto-avveramento” sulla data di un voto già rinviato una volta, con decisione discussa quando fu presa e a maggior ragione discutibile nel possibile bis. Il “caso Ricciardi” segue poi di pochi giorni quello analogo creatosi attorno al presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. In una democrazia normalmente funzionante entrambi sarebbero stati verosimilmente rimossi all’istante dai rispettivi ministri. I quali – Roberto Speranza e Nunzia Catalfo – hanno invece scelto di legittimare politicamente sostanziali insulti alla legalità istituzionale. Peraltro in un assordante silenzio istituzionale. È quindi oggettivo il sospetto che anche Pd e M5s, nascondendosi dietro i cosiddetti “tecnici”, stiano ora tentando di strumentalizzare la seconda ondata del Covid – peraltro ampiamente prevista – ai fini di un ennesimo colpo di mano degno di una “democratura”.
Non da ultimo: il consulente tecnico del ministero della Salute – chissà se e quanto consapevolmente – ha rimesso il dito sulla piaga delle comunicazioni all’interno dell’esecutivo Conte, cioè sul funzionamento della stessa azione di governo del Paese. È questo è accaduto pochi giorni dopo le rivelazioni su quanto avvenne – fra premier, ministri e tecnici – nei primi giorni di marzo sulla decisione cruciale del primo lockdown. Nonostante la questione sia finita rapidamente insabbiata sul piano mediatico – ci si augura non su quello delle inchieste giudiziarie in corso – è ancora tutt’altro che chiarito il percorso di un rapporto allarmistico del Comitato tecnico-scientifico consegnato il 3 marzo al ministro Speranza e giunto (almeno a detta dell’interessato) solo due giorni dopo sul tavolo del premier; che ha atteso poi altri tre giorni per assumere la “decisione politica” della chiusura totale. Alla vigilia di nuovi possibile lockdown il copione politico-mediatico sembra adeguarsi.
I “tecnici” lanciano l’allarme in pubblico, in libertà, in anticipo: presumibilmente anche per alleggerire future chiamate in corresponsabilità. Istituzioni e politica tacciono in attesa di “vedere l’effetto che fa” presso un’opinione pubblica certamente poco orientata a nuove chiusure. Al premier, senza ombra di dubbio, viene nuovamente concesso di muovere i fili della propria para-burocrazia parallela per premunirsi di una carta para-tecnica giocabile sul piano politico. Restano naturalmente tutti gli interrogativi: Ricciardi ha avvertito Speranza di quanto andava a “narrare” in tv a titolo para-governativo? Speranza ha avvertito Conte? Par di capire, invece, che il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese non sapesse che un consulente tecnico della Salute avrebbe parlato di rinvio delle elezioni: ma nel “contismo” ormai egemone nessuno può affermare con certezza che la stessa smentita del Viminale non sia stata un “contrordine” preparato in precedenza, magari dall’onnipotente para-presidenza del Consiglio interpretata dal portavoce del premier.
Sei mesi di scivolamento lento e continuo nella para-democrazia sembrano aver peraltro reso insensibile una società italiana alle prese con la drammatica emergenza economica post-Covid. Non è affatto certa, quindi, una “reazione democratica” in caso di nuova sospensione della democrazia elettorale decisa “a braccio” dal premier. Su questo scenario, il Sussidiario ha comunque già richiamato un precedente storico della massima istruttività: quello della Gran Bretagna all’inizio del secondo conflitto mondiale.
Lo spunto l’ha offerto, a epidemia iniziata, lo stesso Conte quando ha voluto scimmiottare Winston Churchill durante il primo di una serie di controversi “messaggi alla nazione”. Bene: Churchill divenne premier proprio quando gli elettori della più antica liberaldemocrazia del pianeta avrebbero dovuto rinnovare la Camera dei Comuni. Ma nella primavera del 1940 le armate naziste stavano conquistando il continente europeo e ricacciando 330mila soldati inglesi dalla Francia oltre la Manica. Fu allora che a Londra il Parlamento prese atto, anzitutto, dell’inadeguatezza del premier conservatore in carica Neville Chamberlain: negoziatore debole e incompetente, due anni prima, del patto di Monaco con Hitler. Fu quindi formato un gabinetto di unità nazionale, con l’appoggio dei tre principali partiti britannici: Tory, Labour e liberali. Fu chiamato a guidarlo un politico che non era mai stato premier, ma era forse il più esperto uomo di governo in circolazione allora a Londra. Per di più “Winnie” Churchill godeva di una popolarità vasta e sostanziale: i britannici si fidavano di lui, lo fecero davanti a una crisi senza precedenti e non se ne dovettero pentire.
Il capo dell’opposizione laburista – Clement Attlee – fu costantemente il vice del premier liberal-conservatore. Il Parlamento decise che i cittadini dell’Impero con diritto di voto non sarebbero più stati consultati fino a che lo stesso Parlamento – non rinnovato ma pienamente in carica – avesse decretato la fine dell’emergenza. La decisione fu presa sulla base di un Parliament Act già esistente, di cui la Gran Bretagna si era dotata fin dal 1911: quando già c’erano avvisaglie della prima guerra mondiale. Le elezioni furono rinviate di cinque anni e si tennero dieci anni dopo le precedenti. I seggi furono aperti due mesi solo dopo il Victory-Day del maggio 1945. E “Winnie” fu democraticamente rispedito all’opposizione. Alla prima conferenza di pace, fra le rovine di Berlino-Postdam, ci andò Attlee, ché governo poi l’intera ricostruzione post-bellica fino al 1951.
La maggioranza giallorossa vuole rinviare il voto di settembre, anzi: tutti i voti per cinque anni? D’accordo: con un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Lui sì che – è accaduto l’ultima volta qualche giorno fa al Meeting di Rimini – quando apre bocca in pubblico sembra davvero, anzi: è Churchill. Come quando, nell’estate 2012 ha detto: whatever it takes e la prima guerra dell’euro è stata vinta. E ciò è avvenuto, anzitutto, perché Draghi ha ben chiaro cosa sia una liberaldemocrazia di mercato e cosa significhi governarla. È e resta – secondo il proverbiale giudizio di “Winnie” – “il peggior sistema politico al mondo salvo tutti gli altri”.