Scommessa (rigorosamente ambrosiana). Indro Montanelli avrebbe polemizzato di più per l’ennesimo oltraggio alla sua statua o per la censura di Beppe Sala alla “Donna che allatta”? Puntata non facile.
Quando le Br lo gambizzarono – poco lontano da dove ora è stata installata la sua statua – il “maledetto toscano” s’infuriò, ma assai più con gli ex colleghi del Corriere della Sera che omisero intenzionalmente il suo nome dalla titolazione (errore professionale prima che offesa personale) piuttosto che con i terroristi, che anni dopo il direttore del Giornale volle perfino incontrare. Invece – nel suo Aldilà – sarà difficile che conceda udienza a quelli che hanno imbrattato una prima e poi una seconda volta la sua effigie ai Giardini pubblici. Avrebbe certamente preferito ridiscutere con loro per filo e per segno il caso della sua “sposa bambina” in Eritrea negli anni ’30. Oppure tirar tardi attaccando briga con i fautori della “cancel culture”, magari raccomandando loro: con i vostri secchi di vernice prendetevela pure con me, quando rivendico l’Italia del ventennio, ma non con il David di Michelangelo a Firenze.
È possibile che in sé l’opera di Vera Omodeo a Montanelli non sarebbe spiaciuta (non da ultimo per una – politicamente scorrettissima – predilezione per i busti femminili che l’arci-italiano novecentesco non fece mai nulla per nascondere). Di sicuro il bastian contrario che “amava & odiava” Milano più della sua Toscana avrebbe preso le difese di una statua che oggi viene attaccata perché espressione di una civiltà (presunta) “conservatrice”: quella di cui il giornalista fu instancabile ideologo-araldo in Italia sotto i colpi di ciò che oggi viene chiamato “politicamente corretto”. Ma la “reazione” di cui Montanelli si fece simbolo era diretta molto più al conformismo reale che alle rivoluzioni presunte.
Non è possibile, naturalmente, neppure tentare di immaginare cos’avrebbe scritto sul caso della “Donna che allatta”. Come avrebbe – prevedibilmente – strapazzato il Comune di Milano del sindaco Beppe Sala, che vorrebbe relegare la statua in un luogo appartato e “tematico” come la Clinica Mangiagalli piuttosto che farne una “pietra d’inciampo” civica a tutto tondo (come lo resta la statua di Montanelli, almeno fino a che qualcuno proporrà di “cancellarla” dall’antroposfera meneghina).
Chissà se Montanelli si sarebbe chiesto come mai una città che ha saputo dissacrare – artisticamente – la sua Borsa collocandole davanti il Dito Medio di Maurizio Cattelan, oggi ha paura di se stessa nell’esporre una donna-madre. Chissà perché una città che ha accolto in tempo reale nel suo arredo urbano il Disco Grande di Giò Pomodoro piuttosto che “Ago, filo e nodo” dei coniugi Oldenburg e Van Bruggen, oggi esita, storcendo la bocca più imbarazzata che disgustata. Chissà perché una città che ha ricostruito con divertimento davanti al Castello Sforzesco la fontana ” Torta degli sposi” – collocata in occasione di una visita di Benito Mussolini – oggi teme di passare per “postfascista” assecondando la prima Premier donna (romana) quando lancia allarmi sull’inverno demografico.
Certamente, quella odierna non è più la Milano che autorizzò Christo a impacchettare la statua di Leonardo da Vinci davanti a palazzo Marino. Era il 1971 e il sindaco era di centrosinistra. Era il socialista Aldo Aniasi: il “comandante Iso” che a 25 anni si era ritrovato alla guida dell’amministrazione partigiana di Milano subito dopo il 25 aprile. Lui che aveva combattuto il nazifascismo e portato la democrazia in città non avrebbe mai rifiutato o censurato un’opera d’arte regalata al Comune di Milano. Le avrebbe trovato un posto come a tutti i cittadini di pietra o bronzo di una città in cui – giusto per ricordarne uno – San Francesco è da quasi cent’anni al centro di una piazza intitolata al Risorgimento. Ma la “cancel culture” su questo dibatterebbe a vuoto: meglio abbattere prima l’effigie di un santo cattolico oppure cambiar nome a un luogo di memoria “sovranista”?
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