Un mese fa Beppe Sala ha voluto andare personalmente a Verona per l’ultima pacca sulla spalla a Damiano Tommasi, che di lì a poche ore avrebbe vinto il ballottaggio per le comunali di Verona. Battendo “in trasferta” il centrodestra nel cuore del Nord, anzi vincendo un match che valeva doppio contro il sindaco in carica Federico Sboarina. Impedendo che Giorgia Meloni potesse piantare una sua prima bandiera in una metropoli settentrionale.
È stata una mossa – quella del sindaco di Milano – che è parsa voler solidificare in anticipo quello che l’inattesa affermazione di Tommasi ha fatto (ri)scrivere a fiumi nei commenti: che il in Italia “centrosinistra” – anzi: “l’opposizione al centrodestra” – ha reali chance solo quando è capace di muovere i ceti medi urbani con un candidato sindaco preferibilmente non iscritto al Pd o non organico al partito.
È la “narrazione” che ha sostenuto lo stesso Sala a Milano sia nel 2016 che nell’ottobre 2021 (oppure Giorgio Gori a Bergamo). È l’identikit civico di Sergio Giordani, rieletto il mese scorso a Padova al primo turno. È – da qualche giorno – una possibile declinazione delle frenetiche manovre in corso nel “centro del centrosinistra” per consentire al Pd di far valere il suo peso elettorale stimato: ancora non vincente (i dem non hanno finora mai vinto un voto politico). Al tempo stesso, l’“idea Sala” è sembrata congruente con i tentativi meno strumentali di costruire una base politica alla cosiddetta “agenda Draghi”: attraendola verso il centrosinistra ma senza intestarla al Pd.
La figura del “sindaco migliore dei governanti di Roma” è un attrezzo ben collaudato – e con qualche successo – nella cassetta del Pd. Era un sindaco Matteo Renzi quando il partito, il Quirinale e qualche spintarella atlantica lo catapultarono nel 2014 dal municipio di Firenze a Palazzo Chigi. Era sindaco di Roma Walter Veltroni quando fu incoronato leader dei neonati dem. È stato sindaco – fino a un mese fa – Leoluca Orlando: lo era già, sempre a Palermo, alla fine degli anni 80 e in fondo la figura del sindaco “player nazionale” è stata originariamente ritagliata su di lui. E la sua Rete fu – ancora nella Prima Repubblica – la matrice di una formazione politico-elettorale fuori dagli schemi partitici e perfino oltre il bipolarismo affermatosi poi nella Seconda.
Per tutti questi precedenti la prospettiva che Sala potesse svolgere un ruolo attivo e centrale nella campagna elettorale del centrosinistra è parsa più credibile di altre. Benché rimasta allo stato nascente, la sua iniziativa “Verdi Europei” (formalmente la sua bandiera nell’autunno 2021) continua a restare un’ipotesi da verificare sul mercato elettorale italiano. Ma, soprattutto, il suo profilo di manager ambrosiano – a capo di un successo “Made in Italy” sostanzialmente bipartisan come l’Expo 2015 – ne faceva una carta potenzialmente spendibile per un centrosinistra allontanatosi dal mondo dell’impresa privata non meno di quanto sembri aver perso contatto con i ceti cosiddetti “popolari” comunque collegati al sistema produttivo.
Non da ultimo: nel momento in cui Letizia Moratti viene agitata come candidatura-ballon d’essai per la premiership del centrodestra, il nome di Sala non sembrava affatto stonato in una corsa al ruolo di “front runner” del centrosinistra (vi si sono subito inseriti sia Enrico Letta che Carlo Calenda).
Nelle ultime ore, tuttavia, Sala ha impresso alla sua parabola una traiettoria diversa. Ha escluso di volersi candidare (anche se questo le attese non erano fortissime: tenuto conto anche del rinnovo amministrativo alla Regione Lombardia, ancora formalmente in scadenza nella primavera ’23). Ma – soprattutto – in un un incontro con Letta ha ufficializzato gli abboccamenti con Luigi Di Maio, in corso da prima che il ministro degli Esteri annunciasse l’uscita da M5s.
In una fase estremamente fluida e problematica come l’attuale nessuna scelta può essere giudicata in modo netto. Quindi può darsi che l’incontro fra Sala – che ha nella transizione verde e digitale “4.0” il suo nuovo mantra – e “Insieme per il futuro” (brandellone di pentastellati governativi, ormai lontani da No-Tav, No-Triv etc.) scocchi qualche scintilla: anzitutto capace di “dare una mano” a quel centrosinistra lettiano che una fonte insospettabile come l’Istituto Cattaneo vede come perdente certo e secco il 25 settembre.
Tutti gli interrogativi del caso, tuttavia, restano. Di Maio riempirebbe Piazza Duomo? E Sala come verrebbe accolto nelle constituency elettorali di Ipf? Il primo ha vinto le ultime elezioni promettendo il reddito di cittadinanza (e mantenendo la promessa) al Sud del Paese. Il sindaco di Milano si confronta con quello di San Francisco su come ospitare gli startuppers. Ed entrambi dovrebbero convincere i loro elettori a votare per un Pd tuttora romanesco, funzionariale e di palazzo. Guidato da un segretario che, risciacquatosi in esilio nell’elitaria e macroniana Science Po di Parigi, è poi rientrato alle suppletive a Siena: la città-partito del dissesto Mps.
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