La Germania è alle cronache da mesi sotto i lemmi “sbandamento geopolitico”, “perdita di leadership Ue”, “morsa Usa/Cina/Russia”, eccetera. Non c’è dubbio che la guerra in Ucraina abbia colpito sotto la linea di galleggiamento l’ammiraglia della flotta europea in un passaggio delicatissimo: l’avvicendamento fra il comando (collaudato ma usurato) di Angela Merkel e quello – incognito e per alcuni versi casuale – di Olaf Scholz. È altrettanto evidente che lo stesso colpo di mano di Vladimir Putin contro Kiev sia stato agevolato da uno scacchiere geo-energetico disegnato da Berlino in direzione di una dipendenza dalle forniture russe, rivelatasi micidiale anzitutto per la Germania.
Sarebbe tuttavia improprio trascurare i passi compiuti dal sistema-Germania nello sviluppo complesso della crisi fra Occidente euramericano e Oriente russo-cinese. Il lancio di un piano di riarmo da 100 miliardi di euro, a guerra appena scoppiata, è stato il primo: ad aprire il cantiere (a un tempo politico, militare e finanziario) di un nuovo sistema europeo di difesa. Altrettanto pesante è stato il discusso varo unilaterale di uno scudo nazionale da 200 miliardi per imprese e famiglie aggredite dal caro-bollette: unito alla resistenza tedesca al price-cap gas comunitario, il passo ha aperto fratture nell’Ue, ma è un fatto che altri Paesi (fra cui l’Italia) si stanno ora avviando sulla stessa strada. Decisamente controverso è stato invece il viaggio di Scholz in Cina alla vigilia del G20 di Bali: che tuttavia si è concluso all’insegna di un tentativo di distensione fra Usa, Ue e Cina, dopo mesi di pericolosa escalation geopolitica.
Segnali della stessa rilevanza sono giunti – negli ultimi giorni – non dalla stanza dei bottoni Spd-Grunen-Fdp, ma dalla più ampia “Deutschland Ag”. Il più importante è stato certamente l’accordo sindacale siglato dall’Ig Metall, storica centrale di 4 milioni di lavoratori del settore metalmeccanico ed elettrico. Un accordo regionale nel Baden Wuttemberg – “land” industriale dove ha sede fra l’altro la Mercedes – ha previsto un aumento dei salari del 5,2% nel 2023 e del 3,3% nel 2024, con l’aggiunta di due “una tantum” annuali di 3mila euro al netto delle imposte. Gli osservatori sono stati unanimi nel leggere lo sviluppo, saldamente inscritto nella “concertazione” tedesca: sindacati e imprenditori (sotto l’occhio attento di un esecutivo di centrosinistra) hanno deciso di ritoccare all’insù i salari in misura non marginale, ma comunque al di sotto dell’inflazione corrente nel Paese e nell’Ue (da poco salita oltre il 10%). Quindi: no ad automatismi di legge (“scale mobili”), ma neppure ossequio stretto alle preoccupazioni della Bce riguardo i rischi di una una spirale prezzi/salari che renderebbe obbligatorie e severe le frenate antinflazionistiche a colpi di rialzi dei tassi dell’euro.
Una seconda indicazione più strategica di quanto sembri è la chiamata alla Presidenza della Commerzbank di Jens Weidmann, fino al 2021 Presidente della Bundesbank e membro-chiave del consiglio Bce. Commerzbank – con Deutsche Bank uno dei due “campioni nazionali” del sistema creditizio tedesco – è in crisi dal 2009: quando il terremoto dei mercati finanziari globali ha costretto Berlino a salvarla con una nazionalizzazione. Da allora (non diversamente da quanto avvenuto in Italia per Mps) è naufragato ogni tentativo di mettere in sicurezza Commerz con un’aggregazione: nel mercato domestico o altrove (ricorrenti le voci di operazioni straordinarie con l’italo-tedesca UniCredit).
Il 54enne Weidmann, dal canto suo, è tutt’altro che un “ex” in cerca di una poltrona-sicura. Ha lasciato un anno fa la Buba – e la Bce – per decisione propria, dopo il voto che ha archiviato il lungo regno della “grande coalizione” Cdu-centrica di Merkel e riportato il centrosinistra al Governo. Il banchiere ha inteso evitare in anticipo ogni polemica interna con un Governo che – anche in scia alla stagione Recovery Plan Ue – è parso fin dal primo giorno più duttile rispetto alla tradizionale linea di austerity di Berlino. Non da ultimo: Weidmann ha preferito ritirarsi (temporaneamente) dall’arena-euro dopo che Draghi era divenuto Premier italiano e figura-chiave ai tavoli delle decisioni Ue.
Per anni Weidmann aveva recitato da “Herr Nein” nel consiglione Bce, che ha invece sempre regolarmente appoggiato la politica monetaria espansiva dettata dal presidente Draghi e poi anche da Christine Lagarde. Ora quella stagione sembra però giunta a conclusione: lo ha confermato da Francoforte la stessa Presidente francese della Bce. Nel frattempo il Governo tedesco è fra quelli che hanno rimesso con sollecitudine sul tavolo la riscrittura dei parametri di Maastricht. Si tratti di avviare nuove fasi di riassetto e consolidamento del sistema bancario (in Germania, in Europa) oppure di sostenere con autorevolezza campagne politico-mediatiche sulla nuova governance economico-finanziaria dell’Ue, nessuno meglio di Weidmann – sicuramente – può difendere gli interessi tedeschi.
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