L’elezione di Elly Schlein a segretario del Pd è stata accompagnata da un boom di commenti di tono antisemita: lo riferisce l’Osservatorio sull’antisemitismo del Centro di documentazione ebraica di Milano. L’allarme è stato subito rilanciato da molti media e va doverosamente registrato (senza peraltro dimenticare che i dati – sempre corretti – dell’Osservatorio tre anni fa sono stati manipolati da una campagna mediatica contro una presunta onda hate diretta contro la senatrice Liliana Segre).



anzitutto perché a quelle origini, in un decennio di impegno politico, Schlein non ha quasi dato visibilità. Che tuttavia si tratti di una nervatura (politica) delicata lo si è intuito già alla vigilia del round decisivo delle primarie Pd, su una tribuna tutt’altro che banale: Haaretz, il quotidiano-ammiraglio della sinistra “dem” israeliana.



In una corrispondenza da Milano la scrittrice Anna Momigliano si è interrogata sul “perché l’astro nascente della politica italiana stia minimizzando (downplaying) le sue radici ebraiche”. La risposta è lineare: Schlein ha voluto/dovuto prendere le distanze dalle sue origini per mettersi al riparo dagli insulti (slurs) antisemiti in agguato nella volata finale per la leadership della maggior forza di centrosinistra di un grande Paese europeo come l’Italia.

“Elly” era infatti “la sola dei due candidati a vantare ascendenze ebraiche, ciò che ha scatenato attacchi antisemiti”. Fra questi un “importante giornale conservatore” avrebbe accostato il nome della Schlein a quello del “filantropo israelita George Soros”. “Una pletora di tweet razzisti” avrebbe nel frattempo messo nel mirino il naso della candidata poi risultata vincente.



E significativa sarebbe stata anche l’ironia della Schlein sul proprio naso “etrusco”. Un’ennesima “minimizzazione”, elusiva ma evidentemente obbligata nell’Italia odierna, che – annota Momigliano – sembra aver dimenticato di aver avuto tre premier di radici ebraiche nel primo cinquantennio dello Stato unitario.

C’è dunque un mondo ebraico che rivendica e difende Schlein come figlia legittima, tutt’altro che illegittimamente. È la sinistra laica della comunità, in cui la neo-leader Pd è effettivamente in famiglia. Il padre Melvin – la sua vera “radice ebraica” – è un illustre politologo statunitense noto anche per la partecipazione attiva alle battaglie civili degli anni 60: in cui l’intellighenzia israelita della East Coast americana (Melvin Schlein è nato nel New Jersey, figlio di immigrati lituani) si saldò con l’ala liberal-radical dei democrat.

È una simbiosi ancora viva: un leader “dem” come Bernie Sanders è nato a Brooklyn, due anni dopo il padre di Elly Schlein. E quella parte della comunità (dietro il brand riassuntivo del New York Times) è stata ancora importante per l’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, nelle cui campagne la giovanissima Schlein ha lavorato come volontaria.

Ma da tempo quell’ebraismo non è più egemone. Non lo è negli Usa, dove dalle organizzazioni ebraiche sia nel 2016 che nel 2020 sono giunti appoggi importanti a Donald Trump: la cui figlia Ivana – ribattezzatasi “Yael” – ha sposato un businessman israelita (ed è stato Trump e “benedire” nel 2020 gli Accordi di Abramo per il Medio oriente).

Ma, soprattutto, lo storico ebraismo leftist protagonista della fondazione di Israele e della sua difesa in quattro guerre, è da quasi un quindicennio all’opposizione a Gerusalemme. All’opposizione di Bibi Netanyahu, tornato premier pochi mesi fa come leader di una destra religiosa e nazionalista da tempo maggioritaria.

Nel frattempo, attorno ai kibbutz è cresciuta un’enorme valley di start-up votate a ogni nuova tecnologia civile e militare, finanziata fra Tel Aviv e Wall Street. E gli esuli europei non sono più gli scampati alla Shoah o i re-immigrati dagli Usa, ma in gran numero ebrei russi ortodossi.

Non è certamente l’ebraismo politico declinato da Netanyahu quello in cui si riconosce la nuova leader di Pd: che, per la verità, non ha fatto mancare critiche alle politiche di Gerusalemme sulla crisi infinita dei territori palestinesi (ma gli stessi giudizi sono costati all’ormai ex leader del Labour britannico Jeremy Corbin accuse di antisionismo/antisemitismo fatali per il suo incarico).

È quindi (anche) – su questo orizzonte complicato che può essere letta la specifica situazione della Schlein: che si vede oggetto di attacchi antisemiti (subito denunciati dai media) pur avendo lei sempre “minimizzato” le origini ebraiche (sempre “minimizzate” dagli stessi media).

Oppure, in altri termini: ci si può interrogare sul perché Schlein sia difesa in quanto israelita in homepage dal maggior quotidiano progressista israeliano e sia oggetto nello stesso tempo di attenzioni “minime” da parte della comunità ebraica italiana quando diventa leader del Pd.

Tutto questo non sembra marginale o irrilevante rispetto al ridisegno della linea politica “dem” da parte della Schlein. È noto anzitutto un umore di fondo filopalestinese nella sinistra italiana: oggi accentuato dalla parabola sovranista-religiosa di Gerusalemme, appoggiata dall’America trumpiana.

L’atteggiamento storicamente problematico della neosegretaria Pd (finora però sempre nei panni della semplice militante) sembra consentirle in partenza spazi di manovra come “premier ombra”. Certo le insidie non paiono mancare: esattamente come sul più scottante fronte ucraino. Qui è nota la posizione critica di Schlein sul bellicismo pro-Nato (prerogativa peraltro vincente nelle urne per la maggioranza Meloni).

Ma certamente il suo “non bellicismo” appare lontano del sostanziale “neutralismo dalle mani libere” tenuto da Gerusalemme dall’inizio della crisi geopolitica.

Non sorprende – su questo sfondo – che Haaretz sembri ricordare alla stessa Schlein che è figlia dell’ebraismo perseguitato in Europa (anche in Ucraina). È l’ebraismo della Shoah, testimoniato da Liliana Segre: non quello che oggi è sotto i riflettori in Israele perché il governo Netanyahu vorrebbe limitare l’autonomia della magistratura, con le opposizioni che gridano all’attentato alla democrazia.

È d’altronde quest’Israele a essere sempre più decisivo in scacchieri mediterranei cruciali per l’Italia: come la stabilizzazione dei Paesi nordafricani oppure lo sviluppo di EastMed, un nuovo gasdotto che collegherebbe i bacini di gas offshore fra Israele e Cipro con la Grecia e quindi in prospettiva con l’Italia. Un “premier ombra” non può fin d’ora non avere posizione su tutto questo.

Le “radici ebraiche” sembrano non del tutto prevedibili nel progress di un’altra sezione del “cantiere Schlein”. La nuova leader è cresciuta – non solo politicamente – a Bologna. Qui ha riscosso simpatie e appoggi – alcuni espliciti, altri impliciti – da parte del mondo cattolico-democratico che ha nel capoluogo emiliano la sua storica roccaforte. È stato aperto il sostegno del “padre nobile” Romani Prodi, cementato tre anni fa nella “resistenza” al tentativo di sfondamento del centrodestra in Regione.

Le “sardine” prodiane sono state decisive nel portare “Elly” alla vicepresidenza dell’Emilia-Romagna, riconquistata da Stefano Bonaccini: l’ex funzionario dei Ds che si è alla fine ritrovato (e non per caso) come avversario della stessa Schlein nel duello finale per la segreteria Pd. Nella corsa alla successione di Enrico Letta, la neoleader ha potuto certamente contare sul sostegno di un senatore “margheritino” come Dario Franceschini.

E la narrazione di una Schlein “cattodem” è stata indubbiamente corroborata da una telefonata (non scontata) di congratulazioni da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma nelle stesse ore un altro “senior cattodem” come Giuseppe Fioroni ha sbattuto la porta del Pd (e quasi fredda è stata anche la reazione di Rosy Bindi).

Se il primo intervento politico assoluto della nuova segreteria è stata la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per la gestione del tragico sbarco di Crotone, questa ha certamente puntato alla consonanza con alcuni alti esponenti dell’episcopato italiano e all’eco degli appelli di Papa Francesco. Ma da qui a un endorsement aperto – quando già si annuncia una lunga campagna elettorale per le europee del 2024 – la distanza sembra ancora tutta da colmare.

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