Nelle ore in cui al vertice Nato di Ramstein la Germania ha resistito agli ultimatum Usa sull’invio di tank pesanti all’Ucraina, Romano Prodi è stato ricevuto da papa Francesco. Al primo evento i media internazionali hanno dato ampio spazio, il secondo è stato pressoché ignorato perfino dai media italiani: benché, naturalmente, sia stato registrato da quelli della Santa Sede.
L’ex Presidente italiano della Commissione europea ha parlato con il Pontefice dello stesso “mondo in guerra” sul tavolo di Ramstein. Ed è noto il punto di vista condiviso fra i due: la guerra russo-ucraina va fatta finire al più presto. Anzi: è indispensabile evitare che, quasi al giro di boa dell’anno, il conflitto varchi una soglia di non ritorno verso la terza guerra mondiale. È una posizione che appare in buona parte sovrapponibile alle motivazioni del “non-sì”, del silenzio-dissenso di Berlino al summit del Patto Atlantico. Una posizione solo in parte temperata dall’annuncio di ieri sera – da parte del ministro degli Estero, la verde Annalena Baerbock – riguardo la possibile autorizzazione alla Polonia di inviare Leopard all’Ucraina i suoi Leopard in dotazione (forse non di ultima generazione).
La Germania era stata letteralmente convocata nella più grande base Nato nella Ue – al centro della Germania – per sottoscrivere le determinate raccomandazioni Usa. Cioè: l’escalation nel sostegno militare all’Ucraina, in preparazione di nuove “campagne” in arrivo nel 2023 (siano esse la difesa contro nuove offensive russe oppure la definitiva riconquista di Crimea e Donbass da parte di Kiev). A Ramstein, invece, la “resistenza” tedesca è divenuta visibile dopo lunghi mesi di ondeggiamenti di Berlino sul fronte orientale (russo ma anche cinese).
Senza esitazioni – e in qualche momento coraggiosamente solitaria – è fin dal primo giorno la condanna alla “guerra per la guerra” da parte del Papa: che ancora pochi giorni fa non ha avuto timore di declinare un nuovo invito a Kiev rivolto al presidente Volodymyr Zelensky in rigorosa tenuta militare. Appare d’altronde in crescendo anche l’iniziativa di Prodi: la visita a Santa Marta è seguita di pochi giorni a un appello a ricoinvolgere la Cina in tentativi seri di de-scalare la crisi globale. Non è però difficile intuire – dietro le mosse di entrambi i leader della socialdemocrazia europea – dinamiche più articolate.
S&D è la forza politica più in difficoltà nell’Ue odierna: dove fra 18 mesi (prima delle presidenziali Usa) si rinnoverà l’europarlamento. Qui la pressione sovranista (anti-Ue) contro S&D, Ppe e Ald sta decelerando e cedendo il posto all’Ecr conservatore e filoamericano della Premier italiana Giorgia Meloni e di quello polacco Mateusz Morawiecki. E il momento-no di S&D è segnato più che simbolicamente dallo scandalo Qatargate: alla fine più un effetto che una causa del declino del centrosinistra europeo.
Certamente, gli episodi corruttivi per cui il “dem” italiano Antonio Panzeri è in carcere a Bruxelles allungano ombre pesanti anche su quanto è accaduto a cavallo l’ultimo eurovoto. È fra Bruxelles e Strasburgo che sono maturati il “ribaltone” italiano del 2019 (con la brusca staffetta fra Lega e Pd a fianco di M5s); l’approdo al vertice dell’europarlamento del “dem” italiano David Sassoli (nel frattempo scomparso) e il richiamo da Strasburgo del “dem” italiano Roberto Gualtieri per presidiare il Mef nel “Governo Ursula” (copyright Prodi).
Oggi quel Pd (nato mentre lo stesso Prodi era a palazzo Chigi) è ai minimi storici. Dopo un decennio di potere quasi ininterrotto – pur non avendo mai vinto un’elezione politica – è stato relegato a un’opposizione quasi impotente dalla vittoria elettorale di Giorgia Meloni. Mentre i “dem” annaspano fra le candidature a segretario di Elly Schlein e Stefano Bonaccini, non sorprende che sia ancora l’83enne Prodi a tentare manovre da leader europeo degasperiano, “cattolico democratico che guarda a sinistra”. Un’ennesima scommessa – in grande stile – per scongiurare una possibile decomposizione/estinzione del Pd in Italia: com’è avvenuto per i socialisti francesi.
Se l’FdI meloniano si è affermato anche per le granitiche posizione filo-atlantiche e belliciste, il Pd – almeno nella filigrana del discorso di Prodi – potrebbe trarre giovamento da una posizione anti-bellicista: dunque come forza politica che combatte l’inflazione/recessione da guerra e da sanzioni. Un partito dei (vescovi) cattolici e dei laici italiani che “ripudiano la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”: rileggendo l’articolo 11 della Costituzione repubblicana, non i social media antagonisti di M5s. In definitiva: un anti-bellicismo strategico che superi battaglie ormai logore su “diritti” e migranti può funzionare da collante per un nuovo “campo largo” di centrosinistra, ricalcato sull’Ulivo prodiano. L’unico vero vincitore netto sul centrodestra dal voto 1994 in poi.
Lo stesso Scholz – premier in carica del più importante Paese dell’Ue – ha il problema di uscire dall’angolo del “belligerante Nato”, in cui l’Alleanza a trazione Usa lo sta schiacciando. In cancelleria il leader Spd si è ritrovato poco più di un anno fa: quasi per caso, contro molti pronostici. Nel settembre 2021 si è presentato al voto come non prestigiosissimo Vicecancelliere della cristiano-democratica Angela Merkel, all’addio in un “crepuscolo” non trionfale dopo un regno lunghissimo. E negli ultimi 12 anni di quei 16 l’Spd era divenuta sempre più “junior partner” in una coalizione sempre meno “grande”. Un anno prima del voto l’ex partito di Willy Brandt, Helmut Schmidt e Gerhard Schroeder si trovava ai minimi storici nei sondaggi: rassegnato, fors’anche desideroso di rigenerarsi all’opposizione, pensionando lo stesso Scholz. Nelle urne la peculiare democrazia tedesca ha però deciso diversamente.
Il “regime Merkel” (Cdu-Csu) è stato liquidato, come nelle attese, anche per gli errori della supercancelliera nel preparare la sua successione. Tuttavia i vincitori annunciati – I Verdi – non hanno vinto, anzi. La bolla neonazista e xenofoba di Afd si è sgonfiata. I liberaldemocratici di Fdp sono cresciuti, ma non oltre il loro format di forza centrista di minoranza. Il vero, paradossale “vincitore” è stato l’Spd, riemerso a sorpresa come primo partito tedesco: portando a bordo milioni di tedeschi desiderosi di voltar pagina, ma diffidenti sia dei Grunen, sia della Linke, la sinistra estrema ancora radicata soprattutto a Est. È stato così che l’ “onesto notabile” Scholz ha giurato davanti al Bundestag alla guida di un’inedita maggioranza tripartita (Spd-Verdi-Fdp). Era il 6 dicembre 2021: Vladimir Putin aveva avviato sia la mobilitazione per l’attacco all’Ucraina. sia la “guerra del gas”, abbassando le forniture all’Europa e gonfiando i prezzi. Nel frattempo gli Usa di Joe Biden avevano bloccato il “nulla osta” all’operatività del nuovissimo gasdotto Nordstream 2, che avrebbe reso definitiva la partnership russo-tedesca nell’energia.
È su questo sfondo che Scholz ha iniziato la sua premiership: che sulla carta puntava a un rilancio dell’economia tedesca sulle tracce Ue della transizione verde e digitale, con un rigore finanziario meno draconiano e ideologico di quello merkeliano. Ma il nono Cancelliere della Germania post-bellica non ha potuto dedicarsi un solo giorno allo sviluppo della sua agenda: che ricomprendeva anche la riscrittura post-Covid dei parametri di Maastricht, cioò la costruzione di una Ue 3.0. L’attacco russo all’Ucraina è arrivato subito, ma non prima che lo stesso Scholz sia stato protagonista di un ultimissimo tentativo di mediazione (europea) a Kiev: con la richiesta a Zelesnky di una dichiarazione di neutralità che aveva più di una chance di fermare l'”operazione militare speciale” di Putin. Ma era troppo tardi, soprattutto per un “non-ancora-leader-internazionale” come Scholz. Gli Usa avevano già deciso di rispondere a Putin “comme a’ la guèrre”: in un focolaio di crisi molto lontano da Washington. Un’occasione ideale per ridare ruolo alla Nato e al cosiddetto “articolo zero” del patto del 1949 (“l’Alleanza Atlantica ha come scopo quello di tenere l’Urss fuori dall’Europa e la Germania sotto controllo”).
Lungo gli ultimi 11 mesi, la Germania rosso-verde-nera – non sorprendentemente – si è segnalata per un atteggiamento di “resistenza passiva” sul fronte ucraino. Ha incassato un colpo durissimo con il sabotaggio sottomarino di Nordstream 2: sia stato esso un avvertimento/rappresaglia proveniente da Mosca o invece da centri di potere occidentale. Il Cancelliere ha dovuto personalmente condurre – e allo stesso tempo subire – il linciaggio politico-mediatico del suo predecessore/protettore Schroeder, irrimediabilmente compromesso dall’incarico di vertice a Gazprom. Scholz ha annunciato un maxi-piano di riarmo, ma nazionale: senza attendere eventuali iniziative Ue. Ha poi messo in sicurezza energetica il suo Paese con massicci aiuti statali: sempre unilateralmente da Bruxelles e opponendosi sempre al “price cap” europeo, che avrebbe aggiunto una sanzione “strutturale” all’export russo. Pochi giorni prima del G20 di Bali, Scholz è volato a Pechino (che appoggia Mosca e minaccia Taiwan) per un controverso incontro al vertice con il leader cinese Xi, premuto all’interno da un’ennesima ondata Covid. Alla vigilia del summit Nato, infine, il Cancelliere ha dovuto gestire un turbolento ricambio al suo ministero della Difesa, dalle dinamiche ancora non chiare.
È su questa scia lunga che alla stretta di Ramstein la Germania di Scholz ha rifiutato le imperative raccomandazioni Nato. Il Cancelliere ha evidentemente chiaro che in caso di cedimento ai diktat euramericani, la sua leadership e il suo partito sarebbero a forte rischio. E, soprattutto, in caso di escalation militare definitiva, il Paese europeo più danneggiato in prospettiva sarebbe la Germania: dopo un ventennio di flirt geo-energetico con la Russia. Di qui un tentativo di rilancio di impegno pari all’ambizione.
Secondo indiscrezioni non smentite, Scholz non si sarebbe trincerato in un no rigido su un impegno più pronunciato della Germania a supporto militare dell’Ucraina: avrebbe invece chiesto a Biden un invio parallelo di carri statunitensi M1 Abrams. È evidente la direzione (geo)politica che il cancelliere cerca di aprire. Un’eventuale escalation militare pro-Kiev e contro Putin non verrebbe deliberata dalla Nato e non sarebbe quindi contenuto di un “ordine” dell’Alleanza (anche) alla Germania. Sarebbe invece il frutto di un accordo fra Berlino e Washington: virtualmente diretto e “tra pari”, fuori dal recinto Nato. Ma è chiaro che se una “linea rossa” fra la Casa Bianca e la Cancelleria venisse davvero attivata, la crisi geopolitica sarebbe oggetto di un riesame completo di finalità e di strumenti. Ed è verosimile che la sbrigativa logica para-tecnocratica della Nato verso una guerra a oltranza (gradita al Pentagono e ai complessi militar-industriali di diversi Paesi) sarebbe rimessa in discussione politica. L’Ue, nel frattempo, riacquisirebbe soggettività, nuovamente tedesco-centrica.
È assai probabile che se Scholz compirà progressi su questa via sarà osservato con interesse dalla Santa Sede. E riceverà sostegno da Prodi, in attesa di vedere se e come i “dem” italiani riassumeranno iniziativa e capacità di rischio politico.
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