Caro direttore,
forse l’unico commento articolato comparso a caldo sulla nomina del cardinale Matteo Zuppi alla presidenza della Cei è stato firmato sulla Stampa dal teologo Vito Mancuso, brianzolo di Carate. L’approfondimento ha affrontato di petto la svolta maturata martedì a Roma, leggendo l’avvento dell’arcivescovo di Bologna in netta discontinuità rispetto al lungo impegno al vertice Cei del cardinale Camillo Ruini e dell’immediato successore Angelo Bagnasco, sotto i pontificati di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
“Da una parte l’istituzione, dall’altro il movimento, da un lato la politica, declinata anche in ‘partito’, dall’altro la società”. Mancuso è fin dalle prime righe trasparentemente assertivo: costruendo subito uno schema interpretativo di indubbio stimolo. Valido – da domani – per osservare e valutare l’operato del nuovo leader dei vescovi italiani; ma utile, oggi, a svolgere qualche riflessione (qui evidentemente solo giornalistica) su quanto nella Chiesa italiana ha portato Zuppi alla presidenza della Cei.
È un dato di fatto che l’arcivescovo di Bologna abbia maturato la sua vocazione nella Comunità di Sant’Egidio: uno dei grandi movimenti ecclesiali germogliati in Italia sulla scia del Concilio. Un’onda che i papi Giovanni Paolo e Benedetto hanno non solo assecondato, ma anzi promosso: mentre la Cei di Ruini teneva difficili posizioni di “Chiesa nazionale” in un Paese investito come tutta l’Europa – tutto l’Occidente – da fenomeni epocali di scristianizzazione e secolarizzazione.
Sotto il pontificato di Francesco, la prima grande stagione dei movimenti – cioè di un cattolicesimo “sussidiario” alle diocesi – è stata tuttavia dichiarata chiusa dalla Chiesa “istituzionale” con un noto decreto emesso un anno fa dal Dicastero per i laici della Santa Sede. Qui, con tutta evidenza, è stata giudicata meritevole di ripensamento – di almeno momentaneo ridimensionamento e di stretta vigilanza – la generalità delle realtà associative che nell’ultimo mezzo secolo erano germogliate per “spontaneità e fantasiosità” (per citare le caratteristiche salutate da Mancuso come distintive della futura Chiesa italiana di Zuppi versus la passata Chiesa di Ruini).
Sotto la spinta del Vaticano, la gran parte della realtà-movimento – dai carismi più diversi: dalla Comunità di Bose ai Focolari, a Comunione e liberazione – hanno subito avviato percorsi di cambiamento, talora non facili. Un solo movimento – è vero – è sembrato escluso dalla nuova “obbedienza” imposta dal Dicastero per i laici: la Comunità di Sant’Egidio, incardinata da sempre nella diocesi della Curia romana e particolarmente attiva nelle “periferie globali” come “piccola Onu sul Tevere”, sulle strade della diplomazia parallela e della cooperazione economica internazionale.
Ancora pochi mesi fa il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, è stato d’altronde protagonista di un non banale “ballon d’essai” per la successione a Sergio Mattarella al Quirinale: massimo potere istituzionale della Repubblica italiana. Dieci anni prima, lo stesso Riccardi era stato d’altronde al centro di un singolare esperimento politico. Nominato ministro per la Cooperazione internazionale nel governo tecnocratico voluto dal Quirinale di Giorgio Napolitano e guidato da Mario Monti, Riccardi era stato fondamentale nella sua trasformazione in movimento/partito politico. Lo storico romano fu infatti per breve tempo leader di Scelta Civica, una formazione centrista che – annotarono allora parecchi osservatori – veniva guardata con interesse dalla Cei del cardinale Bagnasco e dalla Santa Sede dell’allora segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Alle elezioni politiche italiane del 2013 – svoltesi due settimane dopo le dimissioni di Papa Benedetto e prima dell’elezione di Papa Francesco – Scelta Civica riportò un risultato sostanzialmente negativo: come del resto il Pd. Che pure riuscì a governare per l’intera legislatura, salvo riportare una sconfitta epocale al voto 2018 (la seconda dopo quella d’esordio nel 2008).
La “resistenza” del partito con forti radici sia a Bologna che a Roma ha avuto un passaggio decisivo al voto regionale di inizio 2020 in Emilia-Romagna. Qui la conferma (combattuta fino all’ultimo) del governatore Stefano Bonaccini è stata agevolata dall’invenzione mediatica di uno specifico movimento politico ad electionem: le cosiddette “Sardine”. I “partiti” (l’ex Dc e l’ex Pci) hanno rischiato seriamente di perdere una grande amministrazione retta ininterrottamente dalla sua nascita.
Un astensionismo record nelle strade di Roma ha invece caratterizzato lo scorso autunno le elezioni comunali per il Campidoglio. Il Pd è riuscito a riconquistarlo – strappandolo agli alleati di M5s – grazie a Roberto Gualtieri, quadro del Pci romano, ex vicedirettore dell’Istituto Gramsci, anonimo euro-parlamentare del Pd, richiamato dal partito come ministro dell’Economia nel governo “giallorosso” del premier Conte 2, eletto alla Camera in un voto suppletivo a Roma con affluenza al 17%.
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