Forse per la prima volta da quando non è più premier, Giuseppe Conte ha assunto una posizione capace di suscitare critiche politiche e non solo sorrisi di commiserazione. Il suo “no” all’invio di armi all’Ucraina e soprattutto la sua richiesta al governo Draghi di un confronto in Parlamento mostra in effetti profilo sia nel merito che nel metodo. E la polemica sul metodo – cioè il pressing su Draghi per il rispetto del “decision making” costituzionale – sembra fors’anche più tagliente della querelle sul merito: cioè l’attenzione per il dettato costituzionale sul “ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Conte è già passato alla storia repubblicana come “il premier dei Dpcm”: dei lockdown decisi personalmente sulla base dei poteri eccezionali attribuiti a Palazzo Chigi per l’emergenza-Covid e personalmente comunicati agli italiani nel corso di lunghe dirette televisive o digitali. Il premier giallorosso si è attirato per questo critiche violente, anche da costituzionalisti di grido, e più ancora ne sono toccate al suo comunicatore Rocco Casalino. Quando Conte sollecita il suo successore – pure mai eletto in alcun voto democratico – a venire davanti alle Camere per sottoporre le linee italiane dii fronte all’emergenza geopolitica, è impossibile non sentire una voglia di contrappasso. Non esclusa una pungolatura preventiva: è davvero corretto l’annuncio della “fine dell’emergenza pandemica” decretato da Draghi? Le decisioni prese due anni fa dal governo Conte 2, nel drammatico marzo 2020, nel frattempo, sono ancora un assillo politico-giudiziario per l’“avvocato del popolo”.
Nel metodo, il Conte delle lunghissime perorazioni alla nazione sulle restrizioni da Covid va a sfidare il Draghi comunicatore di una sola battuta sbrigativa sulla crisi ucraina: “Volete la pace o i condizionatori accesi”? Si può portare l’Italia nella “terza guerra mondiale”, si può decidere il “lockdown” da energia di pezzi di Azienda-Paese senza una discussione parlamentare aperta? Sulla base di quale mandato il ministro della Difesa Guerini ieri ha sottoscritto nella base Nato di Ramstein un protocollo bellicista predisposto dagli Usa?
Nel merito, “Giuseppi” Conte – reinvestito come premier “ribaltonista” nell’agosto 2019 dal presidente Usa Donald Trump – si sta levando presumibilmente qualche sassolino dalle scarpe a proposito delle dipendenze “atlantiche” dell’Italia: non dimenticando le nuove accuse (essenzialmente mediatiche) mossegli sui controversi viaggi del segretario alla Giustizia Usa William Barr, a caccia di prove sul cosiddetto Russiagate. Ancora un volta: il filo-americanismo “senza se e senza ma” di Draghi è più meritevole solo perché alla Casa Bianca c’è un presidente “dem”? E che dire della svolta filo-Nato di Enrico Letta, che nel 2014 ha speso le sue ultime ore da premier all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Sochi, in tribuna con Vladimir Putin?
Nel merito più strettamente politico, Conte sembra trarre a rovescio le conseguenze del voto di domenica scorsa in Francia: quando il 42% degli elettori transalpini ha ignorato le “fatwe” lanciate da ogni angolo dell’Occidente contro Marine Le Pen, in rapporti con la Russia di Putin e fredda sia sulla Ue che sulla Nato. Fra dieci mesi si voterà in Italia, probabilmente con il proporzionale: e la guerra di Joe Biden in Europa potrebbe rivelarsi un tonico non solo per i “dem” statunitensi nel midterm di novembre, ma anche per i pentastellati italiani.
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